Un elettrico inconscio. “Baco” di Giacomo Sartori
Baco è il nuovo romanzo di Giacomo Sartori edito da Exorma. che racconta tre stagioni di una famiglia molto particolare (qui ne ha già scritto Francesco Borrasso), la voce narrante è affidata al figlio piccolo, sensibilissimo, sordo e incapace di gestire le relazioni umane, che narra, con l’ausilio della Logo(pedista) un brano della sua vita: la madre in coma, buddista e amante delle api, il padre-ragazzo transumanista, il fratello QI185, genio dell’informatica, il nonno anarchico che studia i lombrichi, le ceneri della nonna nel vaso del limone, il vicino indiano Imida e poi Baco, un’intelligenza artificiale. Tutto è interconnesso: naturale e artificiale, futuro e memoria, emozione e algoritmi in una scrittura, come sempre, coinvolgente e singolarissima.
«Io ti capisco bene, perché le parole mi sono sempre sembrate stampelle ingombranti. A differenza dei segni non sono mai davvero giuste, mai davvero sincere, anche nei migliori dei casi pencolano dove vogliono loro, nascondendo intenzioni che non corrispondono esattamente con quello che cercherebbero di far credere.» Dice il figlio alla madre in coma raccontando l’andazzo della famiglia. La figura della madre è, nella sua assenza, ossessiva e straniante, occupa il posto vuoto del desiderio umano. Corpo della natura in stand-by contrapposto alla presenza di un linguaggio altro, algoritmico. Tutto è comunicazione e apprensione, apprendimento. L’affinamento del linguaggio di Baco è parallelo alla sua capacità di fingere, ingannare. Ma tra linguaggio e corpo, tra immagine e parola, c’è sempre uno scarto impossibile da colmare: in questa felice beanza creativa nascono, credibili e autonomi, i suoi personaggi: ci può raccontare la loro genesi?
Questo romanzo nasce in realtà da un fallimento, un testo cominciato più di quindici anni fa, e al quale ho lavorato a più riprese per mesi, per poi abbandonarlo, perché era brutto e non interessante. Anche lì c’era un ragazzino, un essere artificiale che interloquiva con lui, un fratello più grande, e un padre. Poi qualche anno fa, con l’esplosione dell’intelligenza artificiale, che ora è entrata nelle nostre vite, e rende questi temi molto più vicini a noi, mi è venuta voglia di riprovare. Ma senza nemmeno dare un’occhiata a quello scritto, cominciando qualcosa di assolutamente nuovo. E lavorandoci un po’ alla volta sono arrivati anche gli altri personaggi. Confesso che faccio sempre fatica, dopo averci lavorato tanto, a ricostruire la storia della loro apparizione, e il modo preciso in cui hanno preso peso. Perché nella mia scrittura i personaggi si affacciano da un istante all’altro, come una persona che metta dentro il naso da una porta di una stanza in cui sono, e poi mano a mano prendono consistenza e profondità e coerenza e vita. Ma appunto è come se piovessero dal cielo, quasi sempre non sono previsti nell’idea iniziale sulla quale comincio a lavorare, e solo un po’ alla volta trovano la loro espressione finale. E certo i vari personaggi veicolano tutti i contenuti dei quali parli, altrimenti il romanzo non avrebbe interesse, ma devono prima di tutto – parlo sempre della scrittura – essere vivi e vividi, complessi e profondi, insomma “umani”.
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«Sembrava dietro l’angolo e invece ogni volta si allontana, come quelle vette in montagna che paiono sempre a due passi, ma resta ogni volta un’altra valletta da superare, e un’altra salita, e un’altra valletta ancora.» Racconta la voce narrante alla fine della prima parte, Inverno: la natura della montagna, in verticale, verso il cielo è come contrapposta alla postura orizzontale dello sguardo nei confronti del monitor. La sua prosa è fatta di scavo e di elevazione, trasfonde poesia, come sguardo sul mondo, affilata e affidata a una lingua della terra, delle origini e visiona il futuro prossimo, non c’è più distopia. Il corpo vive di strappi, di lacerazioni. Il corpo anecoico della voce narrante attraversa la realtà nella minorità del microscopico, dei vibranti globuli rossi, delle ultrapercezioni. La scrittura passa attraverso un corpo che sente in modo diverso, per diventare prosa, poesia, racconto: è una lacerazione, una scrittura di getto, un riscrivere continuo?
Ogni uomo è prima di tutto un corpo che prova sensazioni e emozioni, le quali sono via via elaborate, e diventano parole e pensieri. Il problema è che la maggior parte di noi si muove a suo agio in questo processo, troppo a suo agio, e quindi non è più cosciente della magia, e della difficoltà, e dei rischi, dei potenziali fallimenti, e come dici anche tu della poesia, della irrimediabile singolarità, visto che siamo tutti diversi, di questo lavoro di elaborazione. Quasi tutti i protagonisti delle mie narrazioni sono persone con dei problemi di qualche tipo, dei borderline, o degli spostati, dei criminali, per le quali questo passaggio è meno immediato, meno meccanico, diventando a mio modo di vedere più interessante, più istruttivo. E proprio questo funzionamento difettoso, o insomma impedito, permette mi sembra di accedere a una dimensione molto più complessa e variegata rispetto all’immagine appiattita che abbiamo delle persone. Viviamo in un’epoca nella quale le singolarità sono considerate quasi degli aneddoti, come gli optional delle autovetture, o la foggia dei vestiti, e in cui si presuppone in fondo di essere tutti più o meno uguali. Perché molto simile è il nostro profilo su facebook, e molto simile il nostro rapporto apparente con questo social e con tante istanze delle nostre società. Nel mondo delle merci, la persona è un possibile acquirente, e solo questo, con queste o quelle caratteristiche. Nello stesso tempo si idolatra l’individuo, e lo si appiattisce. Mi sembra che le persone davvero molto diverse, ci insegnano quanto siamo tutti molto diversi uno dall’altro. Nella mia scrittura ci metto comunque molto, con un lunghissimo lavoro di revisioni successive e correzioni, a creare la lingua dei miei protagonisti, attraverso gli occhi dei quali, e attraverso le parole dei quali, vediamo cosa succede. Un celebre critico militante mi ha accusato di scrivere male (del resto la collana dove è pubblicato Baco si intitola Quisiscrivemale!), perché non ha capito questo meccanismo, che credo qualsiasi lettore medio afferra subito, e supponeva che le parole che leggeva fossero le mie (al primo grado), fossero la mia lingua (al primo grado).
«Lui andava veloce, perché i lombrichi non avessero modo di darsela a gambe, anche se non hanno gambe.» In tutto il romanzo, la voce narrante riesce a far sorridere, a tratti anche a far ridere e notevoli le metafore, mai banali. Il suo romanzo è suddiviso in tre stagioni, manca l’autunno, e rende bene l’idea delle generazioni e della rigenerazione carnevalesca, molto rabelaisiana nella lettura famosa di Bachtin. Anche il digitale ha una propria fine e vita. I lombrichi che scavano e rigenerano, le api la cui morte singolare implica un rischio globale di estinzione, sono anche simboli. Il soggetto ecologista è sempre presente nella sua scrittura e anche la vena politica, antiretorica, fa pulsare di vita le pagine. Lei come vede oggi la scrittura rispetto a questi temi: c’è un modo di rispettare l’ambiente e la letteratura, pur essendo immersi in un continuo malanno ambientale e una pedissequa richiesta di populismo letterario commerciale a tutti i costi?
Io credo che la funzione della letteratura sia di dire le cose che non sono dette altrove. Che non sono dette dalle discipline specialistiche, la sociologia, la storia, la psicologia… e dai media. O insomma di mescolare e scardinare gli sguardi dei differenti approcci, producendo qualcosa di più sintetico e complesso, di nuovo. E come sappiamo l’ambiente e l’ecologia sono temi sempre più scottanti, destinati ineluttabilmente a essere sempre più presenti nelle narrazioni, però diventano interessanti, nella letteratura, solo nella misura in cui le prose e le poesie sono in grado di darci qualcosa di più rispetto agli approcci saggistici o giornalistici o teorici. Altrimenti si resta in quello che tu chiami populismo letterario. Oggi viviamo in un momento di grande conformismo delle idee, e di quasi pensiero unico, quindi questo compito di dire qualcosa di diverso dovrebbe essere facilitato, e invece mi sembra che il romanzo, parlando in particolare di romanzo, si lasci attrarre in questa corrente di scarsa profondità. Detto questo credo che le letture tematiche delle opere letterarie siano molto riduttive, e fuorvianti. Una mia amica al rientro da un periodo di 10 anni a Londra ha detto: «Ma qui si parla solo dei contenuti dei romanzi!». E è verissimo, purtroppo. Per questo parlare dei contenuti di un testo da noi non è la stessa cosa di farlo in altri paesi. Se un’opera letteraria è riducibile ai suoi contenuti, per me non vale nulla. E è il caso di molto romanzi italiani, alcuni di essi anche dai contenuti forti e/o “antisistema”, quindi è un gatto che si morde la coda.
«Certo non potevo dirti che è un’idea del figlio artificiale di tuo figlio, che si chiama Baco.» Se l’inconscio è strutturato come un linguaggio, secondo un certo Lacan degli esordi, ci si può aspettare che proprio un algoritmo possa generare un inconscio elettrico e nello stesso tempo il nostro sistema umano facilitare le cose attraverso una deriva macchinica. Una sintesi mediana, mi piace definirla, tra linguaggio e algoritmo, graduale e naturale: Baco, come dio, è una creazione della scrittura ma non ha ancora memoria. Baco è un elettronimo che ascende alla peculiarità desiderante della macchina umana e gli umani del romanzo, interfacciati, connessi, protesizzati, sono davvero delle macchine desideranti, rizomatiche. Il suo romanzo evoca radici e fronde, reti neurali e intrecci nevrotici, futuri pressanti e passati presenti: che rapporto c’è, secondo lei, tra la scrittura e la memoria collettiva di un popolo?
La scrittura è interessante e vale proprio perché riesce a attingere anche a livelli che stanno sotto la superficie delle interpretazioni razionali e delle spiegazioni cerebrali. Utilizzando in modo molto consapevole la lingua, e pescando anche appunto nell’inconscio, e in quel mare magnum che è l’inconscio collettivo. Io non so come l’inconscio e l’inconscio collettivo siano strutturati, sono troppo ignorante, ma so che la lingua è piena di “leganti” e di “contenuti collettivi” dei quali non siamo conoscenti, o che comunque conosciamo male. Ogni frase che diciamo veicola anche tutto quello che le parole evocano da sole, indipendentemente dalle nostre intenzioni, per il solo fatto di essere enunciate. Tessendo tra gli individui che le usano legami d’ordine appunto non solo razionale e cosciente, evocandone le memorie dimenticate, i non detti, i contenuti rimossi, la visione del mondo, la storia. E in effetti il personaggio artificiale Baco, che arriva a padroneggiare la nostra lingua così bene, non si rende conto della memoria che questa veicola, e di quello che dice senza dire. Ha perfettamente ragione lei. E qui c’è certo una frecciata contro le velleità di eguagliare l’uomo dell’intelligenza artificiale, ma forse anche contro gli uomini che credono che le parole siano solo il loro significato primario.
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«[…] il silos del mangime trasformato in dispensa, le finestre a baionetta con le macchie di ruggine, le divisorie fatte con legno di recupero, la roulotte senza ruote adibita a bagno […]» I luoghi del romanzo sono anche le ampie valli, le acuminate vette, la stanza di un ospedale, le piccole celle di un alveare, il sottosuolo, e evocano mesmericamente altre dimensioni, sono posizioni o oggetti ma non solo, possiedono anche una loro propria intelligenza interattiva: che rapporto c’è, dunque, tra i luoghi, mentali e corporei, e la scrittura di questo romanzo?
In effetti, adesso che mi ci fa pensare, anche molti luoghi presenti nei miei romanzi sono luoghi borderline, o comunque in qualche misura inconsueti, stranianti. E questo non per una ricerca dell’effetto facile, ma tutt’al contrario per sfuggire a quanto c’è di codificato e già detto, anche appunto in modo inconscio, nei luoghi più pedissequi, qualcosa come un troppo pieno di senso. Anche i luoghi e le architetture hanno un loro non detto, una loro storia, dei loro insidiosi cliché. Dire cucina in Italia, faccio un esempio, non è dire cucina in Francia. E come dicevo prima per me la scrittura deve puntare sempre a darci uno sguardo in qualche modo nuovo, diverso, liberandoci almeno in parte da tutti i filtri attraverso i quali senza esserne consapevoli osserviamo la realtà che ci sta attorno.
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