“Un antidoto contro la solitudine” e “Di carne e di nulla” di David Foster Wallace
A cinque anni dalla sua morte David Foster Wallace sta diventando sempre più un classico del Novecento da un lato, un fenomeno di culto dall’altro. Il rischio è che le case editrici tentino di sfruttare questo clima raccogliendo materiali di ogni tipo pur di continuare a pubblicarlo. A smentire questo timore, a pochi mesi dalla pubblicazione della biografia scritta da D.T. Max, arrivano contemporaneamente in libreria due nuove pubblicazioni, Un antidoto contro la solitudine. Interviste e conversazioni (minimum fax, a cura di S.J. Burn, traduzioni di Sara Antonelli, Francesco Pacifico e Martina Testa) e Di carne e di nulla (Einaudi, traduzione di Giovanna Granato), due raccolte di interviste, conversazioni, articoli e saggi che spaziano cronologicamente e tematicamente, mostrandoci ancora una volta la ricchezza di argomenti e la profondità delle riflessioni dello scrittore americano, imperdibili per gli howling fantods e consigliatissime per i neofiti.
Gli spunti che meritano di essere discussi e approfonditi sono davvero tanti, a iniziare dalle considerazioni sul senso e il ruolo della letteratura, efficacemente riassunte nel titolo italiano della raccolta edita da minimum fax, perché, come spiega Wallace, «ci sono parecchi libri che dopo averli letti mi hanno lasciato per sempre diverso da com’ero prima, e penso che tutta la buona letteratura in qualche modo affronti il problema della solitudine e agisca come suo lenitivo. Siamo tutti tremendamente, tremendamente soli» e la letteratura può costituire un ponte che superi l’incomunicabilità tra gli esseri umani: «il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. Io non so cosa stai pensando o cosa si prova a stare dentro la tua testa, e tu non sai cosa si prova a stare dentro la mia. Nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro», a «imbastire un dialogo fra esseri umani», come dice nell’intervista a Michael Silverblatt.
I testi della raccolta coprono un arco temporale che va dal 1987 al 2005, dagli esordi con La scopa del sistema agli ultimi anni e ci regalano il ritratto di un autore prolifico e appassionato, riflessivo e intellettualmente molto dotato, un uomo complicato convinto di «aver avuto una specie di crisi di mezz’età già a vent’anni, il che probabilmente non depone molto a favore della mia longevità» - ed è difficile non leggere queste parole illuminate dalla luce sinistra della sua fine -, esigente con se stesso e con il lettore, cui richiede tanto ma altrettanto dà, perché «il lettore deve sentire che l’autore sta parlando con lui, non assumendo una serie di pose». In tempi di lunghe e spesso sterili discussioni su realismi e nuovi realismi non è inutile fermarsi a riflettere sul fatto che «una caratteristica della vita di oggi [è] che tutto si presenta come familiare, quindi una delle cose che l’artista deve fare è prendere molta di questa familiarità e ricordare alla gente che è strana», rendere strano ciò che è familiare, farci riflettere sulla nostra quotidianità, che bella idea di letteratura.
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E altrettanto interessanti e profonde le considerazioni presenti nei saggi della raccolta einaudiana, di cui si segnala in particolare, a parte la conversazione con Gus Van Sant, il saggio del 1988 Futuri narrativi e i Vistosamente Giovani, ironico e tagliente, in cui DFW prende le distanze dal Brat Pack letterario, da Bret Easton Ellis e Jay McInerney, dal «Realismo Catatonico anche detto Ultraminimalismo anche detto Carver malriuscito», pur essendo e sentendosi in qualche misura anch’egli parte di quella generazione, «la prima per la quale la televisione è una cosa non solo da guardare ma con cui vivere». E questo elemento della cultura popolare era un punto di confronto spesso aspro con i docenti più anziani, che la vedevano come un qualcosa di “contaminante” e poco “letterario”, da evitare nella stesura di racconti e romanzi, ma «la televisione, la pubblicità, la cultura popolare, l’invadenza dei media e ora internet e i circuiti di informazione, [fanno] parte del paesaggio come nuvole e alberi facevano parte del paesaggio cent’anni fa», sottolinea giustamente lo scrittore americano e non avrebbero senso opere che tentassero inutilmente di astrarsi dalla realtà del mondo che le circonda. La raccolta einaudiana si apre con un breve scritto degno del miglior Wallace “moralista”, Di nuovo fuoco e fiamme, in cui paragona l’AIDS al drago che i cavalieri dovevano sconfiggere per arrivare alla principessa, una benedizione nel suo ricordarci come il sesso non sia un’attività spensierata e l’ostacolo sia fondamentale nel mantenere alta la tensione erotica, quell’eros componente fondamentale dell’essere umano: «ogni animale è capace di scopare. Ma solo gli umani sanno cos’è la passione sessuale, tutt’altra cosa rispetto all’impulso biologico di accoppiarsi. [...] Tartarughe e moscerini sono capaci di accoppiarsi ma solo la volontà umana sa sfidare, trasgredire, vincere, amare: scegliere». E alla fine l’essere umano, cosa significhi essere umani, è il centro di tutta l’opera wallaciana e, a ben vedere, di ogni grande artista.
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