Un affresco sulla solitudine. “Blood of the virgin” di Sammy Harkham
Non uscito da molto per i tipi di Oblomov Edizioni – nuova realtà di Igort (al secolo Igor Tuveri) dopo l’addio a Coconino, cofinanziata da La Nave di Teseo – il primo volume di Blood of the virgin dell’americano Sammy Harkham (per la traduzione di Elena Fattoretto) rappresenta perfettamente quel misto di raffinatezza narrativa, malinconia e attenzione alla descrizione dell’universo emotivo che appaiono come manifesto perfetto della casa editrice, la cui missione si radica proprio nella volontà di portare alla superficie (italiana) pochi lavori contraddistinti da una linea di ricercatezza espressiva rara.
Autore di culto negli Stati Uniti, selezionatore straordinario come dal 2000 è lì a ricordare Kramers Ergot, considerata – probabilmente a ragione – la miglior vetrina disponibile per il fumetto indipendente, Harkham (nato nel 1980) si distingue per tempi di lavoro decisamente dilatati, privilegiando un respiro leggerissimo e tagliente. Con Blood of the virgin ha l’occasione di misurarsi con un’opera dal respiro ampio, di cui si prevede lo sviluppo di un ulteriore capitolo, che gli permette di gestire al meglio il frammentato e caotico precariato emotivo che avvolge e accompagna l’intera vicenda.
Los Angeles, anni ’70. Seymour, montatore video in balia dei meccanismi e dei ritmi frenetici dell’industria cinematografica, si barcamena tra una vita familiare con forse troppo passato e apparentemente troppo poco futuro («Non buttarti giù, il tuo matrimonio non durerà. Siete troppo giovani. Avrete un atro bambino e finirà lì») e la volontà più o meno dichiarata di poter dirigere un film proprio. La possibilità, eternamente rimandata da fallimenti e coincidenze inopportune, sembra presentarsi quando per salvare appunto la pellicola Blood of the virgin – la cui produzione è al collasso tra registi completamente inetti, direttori della fotografia col vizio dell’alcol e risse tra i protagonisti sul set – Seymour viene chiamato a sostituirsi alla direzione.
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Quello che interessa allo sguardo di Harkham, che ricorda in molte entusiasmanti soluzioni espressive quello di John Cassavetes, è seguire il suo protagonista in una serie di folgoranti banalità, accompagnandolo al limite del grande passo affrontato sempre con una certa riluttanza, in un bilanciamento continuo tra entusiasmo e frustrazione. Anche per questo motivo viene prediletto uno stile di griglie misto, scegliendo di alternare segmenti narrativi che procedono attraverso sequenze ordinate in dodici vignette per pagina, ad altri che abbracciano un disegno esteso sulla doppia tavola calando l’atmosfera in una confusa casualità. L’autore può dunque sviluppare il suo gioco servendosi di soluzioni diverse, come scomporre i brevi frammenti della vita dei protagonisti in immediate istantanee ingrandendone ordinari dettagli, o insistendo sul loro smarrimento, incapaci come sono di fare i conti con le loro stesse emozioni («È fastidioso. Anche nei momenti migliori la vita è fastidiosa» confessa Ida, la compagna di Seymour, mentre entrambi si dirigono controvoglia a un party ebraico). Accentuata dal bianco e nero e seppia del tratto di Harkham, la solitudine dei personaggi si riverbera in alcune memorabili sequenze mute, caratterizzate da inquadrature avvolgenti. La descrizione del sottobosco di un cinema lontano dal mainstream, popolato di protagonisti totalmente dipendenti dalla menzogna – verso se stessi e gli altri – e da un narcisismo inversamente proporzionale alla loro rilevanza, è convincente proprio perché si tiene alla larga da parabole moraleggianti, preferendo concentrarsi su tratti comuni in un crepuscolo perenne tra ironia soffocata e commozione.
L’apatia, con cui Seymour sembra accettare l’addio – sebbene temporaneo – della compagna che parte in visita ai genitori in Nuova Zelanda insieme al figlio, arriva al lettore come un sentimento estremamente familiare, noto, con cui sembra aver fatto i conti diverse volte nel corso dell’esistenza. L’incomunicabilità che domina i rapporti tra Seymour e Ida, o tra lui e Joy (una giovane attrice ritrovata sul set), lungi dal divenire una gelida descrizione di posa, è invece accalorata dalla dolcezza che pervade la descrizione di alcuni momenti della routine che coinvolge le sagome che si agitano ai margini della grande città. Così, anche il tentativo malriuscito di un amplesso non consumato per la troppa stanchezza o la meticolosa descrizione di una ricetta divengono riferimenti sentimentali immediati.
Con un talento notevole per la scrittura dei dialoghi, mai artificiosi e proprio per questo in molti frangenti memorabili, con il primo volume di Blood of the virgin Sammy Harkham dimostra di poter offrire un consapevole omaggio alla narrativa statunitense degli anni ’70, e attraverso un tratto cartoonesco, maneggiando con cura la sua conoscenza dell’immaginario cinematografico, imposta un amabile affresco della solitudine senza il timore di nascondere l’affetto che prova per il suo protagonista. Tonio Troiani nota su Fumettologica come a emergere sia il suo smarrimento, con Seymour come «intrappolato in una vita che non sente appartenergli totalmente, ma che recita suo malgrado.»
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Eppure, la dolcezza sconcertante che si respira nell’illustrazione delle traversate notturne per le strade di L.A., ci riporta alle parole che John Carroll Lynch mette in bocca ad Harry Dean Stanton in Lucky: «Esiste una differenza tra lo stare da soli e il sentirsi soli».
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