Un abbraccio alla fragilità umana. “Quello che rimane” di Paula Fox
Quello che rimane è un romanzo di Paula Fox, prolifica e innovatrice scrittrice statunitense, morta lo scorso anno, dopo aver ottenuto prestigiosi riconoscimenti ed essere diventata un riferimento per autori come D. Foster Wallace e J. Lethem. Si tratta di un libro salutato da molti come un capolavoro, secondo Jonathan Franzen, autore della prefazione,capace di librarsi «più in alto di ogni altra opera narrativa americana di stampo realistico dalla seconda guerra mondiale in poi». Il romanzo è tradotto da Alessandro Cogoloe pubblicato, come l’edizione del 2003 e tutte le altre opere per adulti della Fox, dall’editore Fazi, molto attivo nella valorizzazione di “gioielli” della letteratura internazionale (basti pensare al caso Stoner). Da Quello che rimane nel 1971 il regista Frank D. Gilroy ha tratto un film, Desperate Characters, premiato con due Orsi d’argento al festival di Berlino.
Scritto durante la grande contestazione che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta sconvolse il mondo, il romanzo ne coglie una sottile ma intensa eco, filtrata attraverso lo sguardo della borghesia urbana statunitense, benestante e colta, rappresentata dai coniugi Bentwood e dai loro amici; una classe abbarbicata ai suoi privilegi, che assiste indolente alle trasformazioni epocali che stanno avvenendo intorno a lei. Il personaggio centrale del romanzo, la quarantenne Sophie Bentwood, conduce a Brooklyn una vita “quietamente” insoddisfacente, intrappolata nelle convenzioni borghesi e nell’ormai esasperato rapporto col marito («Entrambi erano in piedi, rigidi, ciascuno accumulando, quasi inconsciamente, prove contro l’altro»), l’onesto ma rigido e conservatore Otto, che a tratti sente di detestare un mondo di fragili certezze che basta un gatto randagio potenzialmente rabbioso – deus ex machina la cui inquietante immagine è presente anche nella scena sulla copertina del libro – a far crollare; il suo morso infatti, inferto a Sophie mentre, contro il parere di Otto, lo accarezzava dopo averlo nutrito, è la miccia che dà fuoco alle polveri sotto cui si sgretola l’illusoria fortezza che la proteggeva e le impediva di prendere piena coscienza del proprio vuoto esistenziale.
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L’orrore che Sophie inizia a sentire intorno a sé, l’inquietudine quasi demoniaca che sembra emanare dagli oggetti di sempre e che fa assumere al romanzo la tensione di un thriller, non sono infatti che il riflesso della sua sofferenza interiore. Ed è proprio il saldarsi di quest’ ultima, insinuatasi come elemento di rottura nella tranquilla routine dei Bentwood, coi fermenti di rivolta sociale volti a distruggere il vecchio mondo per farne nascere uno nuovo, a permettere a Sophie di diventare «morbosamente autocosciente» come la definisce Franzen, ed esserne almeno in parte sollevata, quasi che lo strazio della sua anima, riflettendosi nel dolore della sua mano ferita e in quello del mondo fuori di lei, ne venisse giustificato e placato. La sua riluttanza a rivolgersi a un medico ha in sé una componente autolesionista. Come scrive Franzen nell’introduzione, la donna «oscilla tra la paura e uno strano desiderio di essere ferita. È terrorizzata da un dolore che non è sicura di non meritare», a causa della sua pigrizia e dei privilegi ai quali non riesce a fare a meno di aggrapparsi, essendo le fondamenta del suo “equilibrio”, ma da cui pur tuttavia si sente soffocata.
Solo nell’ultima parte del romanzo Sophie trova la forza di confrontarsi con la verità e di riconoscere il male fattole dal gatto, sino ad allora ostinatamente negato («Non andrò di corsa all’ospedale per una cosa così stupida come questa»), per la consueta inerzia, per la volontà di non mostrarsi debole agli occhi di Otto, ma soprattutto in quanto intollerabile «atto di autoindulgenza» («reso più odioso dal fatto che avrebbe potuto permetterselo» – pensa un giorno in cui sceglie di prendere la metro al posto del taxi).
L’“immobilismo narrativo” del romanzo, che ruota dapprima intorno al continuo rinvio da parte della protagonista della decisione di farsi visitare la mano ferita, poi intorno all’angosciante attesa dei risultati diagnostici, si fa specchio letterario dell’incapacità borghese di prendere in mano la propria vita. Il pensiero formulato ad alta voce da Sophie nelle ultime pagine di Quello che rimane, «Dio, se ho la rabbia, sono uguale a tutto quello che c’è fuori», rafforza la percezione della sua vicenda personale come parabola della decadenza, sotto i colpi della contestazione, della civiltà del cosiddetto “mondo libero”, minata dal suo stesso esasperato individualismo, dalle ingiustizie sociali e dai conflitti razziali. Emblematici in tal senso sono il contrasto tra le baracche alle cui finestre sono appesi stracci laceri e le dirimpettaie, eleganti case borghesi, o l’arrivo in casa Bentwood di un uomo di colore che racconta loro di essere stato maltrattato da tutti i bianchi della zona, episodio cui fanno da contraltare il vandalismo del quale è fatta oggetto la loro casa di campagna o la pietra lanciata contro la finestra di un amico. Significative sono anche le parole di Leon, ex marito di Claire, amica di Sophie («Questo è quello che rimane della civiltà. Prendi il materiale grezzo e lo trasformi»), che affondano il coltello anche dentro alcuni miti della contestazione giovanile, e quelle rivolte dal “liberal” Charlie al vecchio amico e socio Otto, il cui studio legale ha abbandonato per la sua “chiusura al nuovo” («Nessuna oppressione è mai stata così difficile da contrastare come quella della classe media, perché ha mille facce, persino quella della rivoluzione») o a Sophie («Non sopravvivrai a questo… a quello che succederà adesso. La gente come te… testarda e stupida e tristemente schiavizzata dall’introspezione mentre le fondamenta dei suoi privilegi vengono fatte esplodere sotto i suoi piedi»).
Sophie cerca riparo dalla sua sofferenza nelle vecchie certezze, ma non riesce a trovarlo né nell’amica Claire, troppo dedita al proprio mondo maniacalmente “naturista” e al rapporto con Leon, né in Otto che, pur amandola, è tanto chiuso in se stesso da apparire “inumano” e assorbito dal suo ossessivo bisogno di ordine e legalità, né nell’ex amante Francis che cerca invano di contattare. L’ultima speranza la ripone nel riuscire a trasformare la sua paura in arte, attraverso una lettera autoironica da inviare alla madre, lettera che si propone più volte di scrivere senza mai riuscirci e che, nel suo restare in nuce, ha un ruolo centrale anche nell’epilogo.
Il registro stilistico della Fox è di un realismo naturalista così intenso e vivido, anche nella descrizione degli interni casalinghi, che potrebbe definirsi “plastico”. Ma la sua penna, grande “disvelatrice” dei coni d’ombra delle dinamiche famigliari, sa anche affondare nella gamma delle emozioni e dei sentimenti con la precisione di un bisturi, attraverso un linguaggio nitido e teso. La figura di Sophie è molto moderna e autentica nelle sue contraddizioni: determinata e fragile, coraggiosa e piena di paure, libera dentro di sé ma schiava delle «costrizioni della cautela e del sotterfugio». Franzen si chiede da cosa stia fuggendo. Premesso che Quello che rimane ha soprattutto a che fare con «la persistenza delle domande» si può azzardare una risposta: da un mondo ipocrita e ingiustamente privilegiato in cui non si ritrova, ma al quale si stringe perché non ha la forza di crearne dentro di sé un altro abitabile né di trovarlo al di fuori, in quanto la società «che sta cadendo a pezzi», malgrado ne comprenda appieno le cause, le appare troppo pericolosamente ostile (e l’unica esperienza nuova che è riuscita a vivere con il rimpianto Francis è finita suo malgrado).
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Come le altre opere della Fox, Quello che rimane è in definitiva un abbraccio alla fragilità umana, il cui emblema potrebbe individuarsi nella citazione di Thoreau: «La maggior parte degli uomini conduce una vita di tranquilla disperazione». Non a caso il titolo originale è Desperate Characters.
«Non sono mai appartenuta a nessuna famiglia che si possa definire tale: sono sempre stata completamente libera. Un vantaggio o una condanna», aveva detto in un’intervista la Fox, la cui vita, descritta nel romanzo L’abito della festa, ha conosciuto l’abbandono da parte dei genitori, un precocissimo matrimonio e la nascita di una figlia data a sua volta in adozione.Sul presupposto che intendesse per “famiglia” ciò che le è mancato da giovane, cioè una stabile rete affettiva, Quello che rimane sembra optare, a dispetto del male del vivere che rende i suoi personaggi “moralmente sfiniti”, per la centralità di tale rete, su cui l’autrice stessa, in età più matura, ha voluto scommettere, risposandosi e avendo altri figli. Perché, sembra suggerire lo struggente epilogo, d’una densità simbolica che ricorda il quasi coevo Buñuel di Il fascino discreto della borghesia (cui l’accomuna, oltre all’estrema riduzione dell’articolazione narrativa, il messaggio dell’impotenza borghese, rappresentata allegoricamente dall’insoddisfazione di un particolare desiderio), forse la sola forza salvifica è quella che rende gli esseri umanireciprocamente necessari.Perciò, quando si è avuto il privilegio di vivere una relazione “autentica” - come quella che fa dire a Claire di Leon, abbandonato dopo che aveva messo incinta un’altra: «A volte lui dorme qui con me. Dormiamo insieme tutta la notte abbracciati, e io mi sveglio durante la notte e sono felice. È un modo di amare, non è vero, Sophie? Possiamo soltanto essere come siamo, l’uno con l’altra. Se lui non venisse a trovarmi, penso che volerei via come un batuffolo di cotone» – vale forse la pena cercare di salvare “quello che rimane” dopo che incomprensioni, tradimenti e routine hanno schizzato d’inchiostro-cenere la superficie dell’Amore che è stato.
Per la prima foto, copyright: Stas Svechnikov.
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