Umberto Eco: “entrare nel bosco” e l’esperienza di una lettrice
Non lessi Il nome della rosa quando uscì, negli anni ’80. Diventò ben presto un best-seller, passando in breve all’edizione tascabile e a numerose ristampe, e io ancora mi rifiutavo di leggerlo. Per scelta, per partito preso, per diffidenza. Non avevo ancora vent’anni e le mie letture di allora riguardavano, tra un esame e l’altro, Shakespeare e Ibsen, Mann e Dostoevskij.
Poi qualcuno mi regalò una copia del Nome della rosa, con le postille alla fine, scritte sempre da Umberto Eco. Finalmente lo lessi, ma restai diffidente. Non ci fu delusione perché dal romanzo mi aspettavo l’esercitazione di un erudito, e tale lo trovai. Alla letteratura chiedevo e pretendevo spazi sconfinati e desiderio di infinito, la notte di Novalis e l’energia totalizzante dei romanzi russi. Il nome della rosa mi sembrò un esercizio intellettualistico genialmente riuscito, la scommessa di uno studioso concepita a tavolino, scommessa pienamente vinta a fronte delle sue conoscenze immense, della sua innegabile abilità. Ma non mi sembrava il romanzo di uno scrittore.
Anche oggi, a distanza di tante e diverse letture, la letteratura italiana non riesce a piacermi. O meglio, qualche romanzo riesce a prendermi lì per lì, ma senza strapparmi l’ammirazione, il senso di emulazione, di immedesimazione dei McEwan, dei Franzen e via dicendo. E per me è un cruccio grandissimo, considerato il fatto che la mia formazione nasce dall’italianistica, dalla storia della letteratura italiana. E forse proprio per questo continuo a chiedermi, ancora oggi, quale colpa macchia il romanzo italiano, per non avere noi un Carver, o uno Yates (quello di Revolutionary road), se vogliamo andare appena un po’ indietro nel tempo, America anni ’40.
Negli anni ‘90 feci il dottorato di ricerca in Italianistica. Dato che i miei studi riguardavano il Cinquecento studiavo cabala, letteratura simbolica e iconografia dalla mattina alla sera. Scovavo testi incomprensibili, più o meno sconosciuti, da cui mi aspettavo misteri insondabili, e per questo più affascinanti, mi sentivo l’aura dell’iniziata. Fu allora che lessi Il pendolo di Foucault. Per caso ne sfogliai qualche pagina in libreria, con la solita perplessa sufficienza, e invece contro ogni previsione mi ci ritrovai. Mi ritrovai in quell’incasinato protagonista, nei suoi intricati labirinti, anche se le mie vicende non avevano niente a che fare con le sue.
In tutti quegli anni avevo amato stimato ammirato profondamente Umberto Eco come critico e come semiologo. L’impressione che ricavai da quel secondo romanzo, dalla critica meno acclamata del primo, fu per me una rivelazione. Che Eco potesse essere più o meno uno scrittore non mi importava più, quel romanzo mi aveva trascinato in un universo che temevo e desideravo insieme, e quando dopo molte centinaia di pagine arrivai al finale sentii un profondo sentimento di perdita e rimpianto. E per non dovermi allontanare più di tanto dall’autore di quella rivelazione, ripresi in mano Il Nome della Rosa.
Il quale mi apparve diverso, affascinante e modernissimo, in quel suo raccontare un Medioevo tinto di giallo, leggibile a più livelli. E anche i personaggi mi apparvero moderni, compiuti, credibili e destinati a rimanere indelebili nella memoria del lettore. “Entrare nel bosco “ è la metafora usata da Eco nel suo testo Sei passeggiate nei boschi narrativi (le Norton Lectures alla Harvard University, 1992-1993) per descrivere il percorso che ogni lettore compie all’interno del testo che legge, con esiti immaginativi a volte imprevisti dall’autore stesso. Come se il lettore dovesse o potesse ogni volta completare liberamente con la propria fantasia il destino dei personaggi tratteggiati dall’autore, con eventi sentimenti e pensieri che vanno oltre il finale stesso. Ovviamente questa è solo una delle tantissime categorie epistemologiche dell’Eco critico letterario, ma è una metafora che nel caso della lettura mi ha sempre affascinato. Entrare nel bosco può significare entrare in un libro e perdercisi, come Hansel e Gretel nella foresta, può significare poi anche ritrovare la strada grazie ai sassolini bianchi disseminati da Pollicino, bianche isole di memoria che sedimentano a volte per anni nella nostra immaginazione per riaffiorare quando riprendiamo quel libro in mano e ci riconosciamo in esso.
Sono passati trent’anni dal Nome della rosa. Il quale è stato tradotto in molte lingue, è apprezzato in buona parte del mondo, e soprattutto letto. E, cosa più importante ancora per la letteratura italiana, è stato il capostipite in Italia di un genere che prima non esisteva tout court, il giallo storico-letterario. Possiamo dire intanto che questo modello ha aperto la breccia a numerosi altri esempi di questo genere, più o meno riusciti, e soprattutto ha avuto il merito di sdoganare nel panorama letterario italiano un genere fino a quel momento guardato con diffidenza e superiorità dalla critica accademica (e non solo): il giallo. Non che il Novecento italiano non avesse scrittori di gialli: da Augusto De Angelis a Giorgio Scerbanenco (che forse vira più sul noir), era però ben difficile che questi entrassero nel novero degli scrittori riconosciuti dalla critica.
Si può dire infine che Eco abbia come scrittore un altro grande merito: quello di aver dato dignità e valore letterario di portata almeno europea ad un genere che ha ben più linfa vitale di quanto non si pensi, a fronte di tanta letteratura contemporanea che non riesce a liberarsi da suggestioni provincialistiche o da facili autobiografismi.
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