Umberto Boccioni voleva distruggere i musei? Un’intervista possibile
Anche questa volta ci è accaduta una cosa inaspettata. Come con Matisse, abbiamo chiuso gli occhi e abbiamo voluto immaginare un incontro con uno degli artisti più importanti del Novecento, Umberto Boccioni.
L’intervista non è stata semplice: il carattere forte e l’aria da ribelle dell’artista si sono manifestati anche in questa occasione. Abbiamo parlato di cosa non funziona in Italia, di religione, di libri. Ci è mancato poco al litigio verbale. Ciò che l’ha maggiormente sconvolto è stato il momento in cui gli abbiamo rivelato che aveva avuto un figlio.
Ma non vogliamo svelarvi troppo. Ecco a voi il nostro dialogo con Boccioni.
Iniziamo subito con una domanda che solitamente si pone ai grandi maestri: come e quando è iniziata la sua carriera artistica?
Mi sono diplomato all'Istituto tecnico di Catania, dopo vari trasferimenti della mia famiglia. In quel periodo vivevo lì con mio padre, un ufficiale prefettizio, mentre la mia mammà [così era solito chiamare la madre] Cecilia e mia sorella Amelia vivevano a Padova. I miei risultati in disegno erano mediocri! Ricordo che un giorno la mia cartolaia polacca mi disse: «Lei diventerà un grande artista». Io sorrisi e risposi: «Davvero? Benone!».
Il 1900 fu un anno di crisi nei rapporti con mio padre. Decisi per questo motivo di abbandonare Catania e trasferirmi a Roma per dedicarmi alla pittura, ma inizialmente lavorai nello studio di un cartellonista. Fu poi l’amico Gino Severini a propormi di andare a dipingere con lui nella scuola di Giacomo Balla.
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A proposito di Severini: le leggo che cosa ha scritto in una sua lettera quando vi siete incontrati da Balla. «Boccioni arrivò con una enorme cartella, nella quale aveva riunito una grande quantità di disegni per farmeli vedere. Guardava con invidia e curiosità la mia scatola di colori e mi confessò che non aveva mai toccato né pennelli né colori».
Ammetto, è vero. Frequentammo lo studio di Balla che ci permise di avvicinarci alla pittura divisionista. Che bel gruppo eravamo. Ecco una foto che ci ritrae…
Da destra Luigi Russolo, Carlo Carrà, Marinetti, io e Severini: eravamo a Parigi per l'inaugurazione della prima mostra del 1912.
Lei saprà che cosa abbiamo fatto nel 1910.
Sì, naturalmente: avete firmato il Manifesto dei pittori futuristi. Devo confessare però che non ne condivido i principi. In fondo Marinetti avrebbe voluto la distruzione di biblioteche, musei...
Qui si sbaglia, signorina. Non condividevo neppure io con Marinetti questo aspetto, che cavolo! Avevo una precisa coscienza della cultura. Tutti oggi vedono la cultura un rifugio ai dolori della vita. Anche per me lo è stato. Volevamo solo rivolgere un appello agli artisti italiani! Volevamo ribellarci alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue e giudicavamo ingiusto l’abituale disdegno per tutto ciò che era giovane. Noi siamo stati i soli giovani italiani che veramente si sono preoccupati di rinnovare la pittura e la scultura della nostra Italia, terra di morti.
Terra di morti? Oggi l'Italia è conosciuta come il Bel Paese, lo sa?
Bel Paese del cavolo! È doloroso vedere in quale stato d'abbruttimento giace l'idealità estetica del nostro grande Paese, forte di quaranta milioni di abitanti...
Bè, in verità non è cambiato molto dal 1907. Unica cosa è che ora siamo quasi a sessanta milioni...
Ecco, ancora peggio. È quasi incolmabile l'abisso di ignoranza, di vigliacca apatia che separa l'Italia, chiamata con ironia archeologica il Paese dell'arte, dalla sensibilità estetica degli altri Paesi civili. Chi oggi considera l'Italia come il Paese dell'arte è un necrofilo che considera un cimitero come una deliziosa alcova. Di questo odioso luogo comune noi pittori futuristi ridiamo allegramente per non sputare in faccia e prendere a calci nel sedere ogni imbecille che ce lo ripete.
Si perde tempo a discutere su quell'immondezzaio pittorico che è la Piazza delle Erbe a Verona, sui puzzolenti canali di Venezia, su quel miserabile vicolo di rigattieri che si chiama a Roma via Condotti. In Italia non manca il denaro, non manca la forza: mancano i cervelli moderni.
La vorrei mettere al corrente che oggi Piazza delle Erbe a Verona è uno dei luoghi più frequentati dai turisti in visita nella città. Venezia e la sua laguna, quindi anche i suoi canali, sono inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale UNESCO dal 1987 e via Condotti è il luogo in cui sorge l'Antico Caffè Greco che, se non erro, fu frequentato dallo stesso Silvio Pellico, autore che lei amava...
Bisogna avere il coraggio di distruggere e calpestare anche quello che ci è caro per ricordo o per abitudine, signorina. Mutilare i rami vecchi e inutili.
Voglio del nuovo, dell'espressivo, del formidabile! Tutto il passato mi opprime, io voglio del nuovo! In Italia mi sembra tutto in disuso: un enorme museo per le cose d'arte.
Quanto a Pellico, ho letto Le mie prigioni e mi hanno commosso. Quello che mi dispiace in lui è il tenersi troppo attaccato alla forma escludendo all'infuori della Chiesa Cattolica ogni salvazione e rallegrarsi di un protestante che abiura, parlare d’ordine, di autorità e di governo e chiamare meschina critica quella di Voltaire, empie altre filosofie, e soffermarsi troppo contro le partigianerie, le cattiverie che a lui sembrano aggravarsi nel suo tempo. Qualunque siano le deduzioni che Silvio fa, il suo libro merita la fama che ha. Esso mi ha aiutato a capire.
Che rapporto ha con la religione?
La religione mi sembra l'espressione più profonda dell'aspirazione e della perplessità umana di fronte all'infinito. E pensare che ho sempre combattuto la religione cattolica. Il Vaticano? Mi sembra che il nemico sia lì e non nei cattolici. Per me filosofare significa ricercare Dio. Farne oggi alla vigilia dell’affratellamento universale il monopolio di una Chiesa, o è partigianeria o debolezza di mente o tutte e due.
Lasciando la religione, so che lei ha sempre amato leggere. Quali furono le sue letture preferite?
Amavo leggere Carducci perché ammiravo la sua lenta e meravigliosa evoluzione poetica e pensavo alla mia miseria, alla mia mancanza di visione netta, di metodo. Ho apprezzato Casa di bambola di Ibsen. Magnifico dramma! Che freschezza di idee! Come ha saputo cogliere lo svegliarsi del diritto della propria personalità!
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D'Annunzio, quanto lo ammiravo! Quando passava con le sue automobili… tutti lo guardavano e seguivano. In altri momenti però lo detestavo, troppo passatista per i miei gusti.
Il libro oggi è divenuto un'ossessione gigantesca. Non v’è idiota che non si creda qualche cosa d'importante quando ha un nuovo libro sul tavolo o una rivista sotto il braccio.
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Non vorrei deluderla, ma pare che in Italia questo esistesse solo nel primo Novecento. Oggi gli italiani leggono poco. Ci sono in compenso molti scrittori.
Cavolo, per me era quasi un'ardua impresa tenere un diario, e oggi son tutti scrittori! Il mondo cambia. Finalmente! Sa che pure io ho scritto un libro? S'intitolava Pene dell'anima. I più grandi prosatori Cicerone, Seneca, Foscolo, Leopardi, Manzoni, ecc. tutti si saranno inchinati all'autore di Pene dell'anima. I più grandi scrutatori delle cose umane Socrate, Aristotele, Platone, Schelling ecc. tutti saranno impalliditi innanzi al sublime filosofo Umberto Boccioni. Filosofo ateo-scettico-materialista, nuovo fondatore del sistema filosofico dei Cazzacci. Tutti! Tutti! Tutti! S'inchinarono!
Davvero modesto! La stessa scrittrice Margherita Sarfatti, una delle sue tante amanti, la definiva «snob, arrivista, vanitoso».
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Sì, ho esagerato forse. Mi ritrovo spesso a riflettere sui miei errori. Margherita la conobbi prima della relazione con Mussolini. Beh, non fu l'unica. Ah, la donna: a parità di valore ha sempre una superiorità indiscutibile nel senso artistico sull'uomo.
Sì, ne ho avute parecchie! La principessa Teano Vittoria Colonna, mia cugina Sandrina Procida, Ines. La bella Sibilla Aleramo: chi se la dimentica. Ci ha provato con me per lungo tempo. Quella donna, che mia sorella Amalia diceva avesse «una faccia da massaia», mi voleva a tutti i costi, tanto da chiamare in aiuto D’Annunzio. Mi aveva progettato un incontro con questi, per far sì che quel passatista mi invogliasse a intraprendere una relazione con lei. Le avevo pure scritto che non avevo alcune intenzione di legarmi a nessuno. Non avevo mai vissuto con una donna più di tre giorni. Non avevo quasi mai dormito con una donna[1]. Le due donne che ho amato di più sono state mammà e mia sorella Amelia.
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So che non è opportuno in questa sede, ma credo sia giunto il momento di metterla al corrente di una questione. Con la russa Augusta Popoff, lei ha avuto una relazione...
Sì, poi ci siamo lasciati. So però che ha avuto un figlio! Buon per lei. Mi scrisse nel 1907 dicendomi che era diventata madre...
Quel figlio, signor Boccioni, era il suo. Lo chiamarono Pierre. Voleva seguire le orme del padre: voleva fare il pittore e per questo contattò Severini per avere qualche lezione. Ma non ebbe talento. Alla fine partecipò alla seconda guerra mondiale e se ne persero le tracce.
Questa notizia mi lascia impietrito. Non lo sapevo. Mi spiace non aver conosciuto mio figlio. Sono senza parole.
Augusta morì poco dopo lei, nel 1920.
Io lasciai questa terra nel 1916. Avevo solo 33 anni. Stavo cavalcando la mia puledra Vermiglia, a Sorte, vicino Verona. Un autocarro la fece imbizzarrire così mi fece cadere a terra e non mi risvegliai più. Avevo una grande passione per i cavalli. Andavo con Marinetti all’ippodromo di Milano a studiare il dinamismo di quegli animali in corsa. Avrei dovuto ascoltare più attentamente mammà, quando un giorno mi disse: «Ti lascio alla raccomandazione di non essere imprudente quando andrai a cavallo perché tu meglio di me saprai che le bestie sono capricciose».
Mi trovarono con un fazzoletto tricolore di seta con lo stemma sabaudo al centro che portavo nella tasca interna della mia giubba. Volevo si sapesse, nel caso in cui fossi morto, che ero un patriota.
Una delle opere più conosciute che lei ha realizzato è Forme uniche nella continuità dello Spazio. Sa che oggi quell’opera la portiamo sempre con noi in tasca? Si trova riprodotta nella moneta italiana da venti centesimi. Quella scultura sembra un mostro con elmetto, senza braccia e senza piedi.
Ho iniziato la mia carriera da scultore nel 1912. Con quell’opera volevo rappresentare il dinamismo. La decomposizione e la deformazione hanno in sé un valore di moto in quanto rompono la continuità della linea, aumentano le direzioni delle forme. La forma dinamica è una specie di quarta dimensione. Esprime la nostra epoca di velocità e simultaneità. Un tendere all’infinito, quello che io chiamo trascendentalismo fisico.
Potrebbe spiegare in modo più semplice anche a chi non ama questo tipo di arte?
Il solito pubblico che crede di occuparsi d’arte, invece… Dunque. Gli scultori tradizionali fanno girare la statua su sé stessa davanti allo spettatore, e lo spettatore attorno alla statua, ma ciò non fa che aumentare l’immobilità dell’opera scultorea. La mia costruzione crea davanti allo spettatore una continuità di forme e di movimento. Ho sempre trovato nei pittori, scultori, architetti la più completa ignoranza sulle finalità dell’opera d’arte, l’indifferenza sulla necessità di una stretta relazione col momento in cui essa appare. S’illudono che la lagrimetta versata sulla prima sciocchezza che ci appare significhi ispirazione. La mia voleva essere una sintesi tra figura e spazio. Non un singolo movimento, ma l’insieme dei movimenti.
Credo che in ogni artista italiano si senta ancora l’influenza nefasta del superficialume ufficiale di Raffaello. Tre quarti della pittura italiana è infetta dalla lebbra della pittura veneziana.
Signor Boccioni, mi perdoni, quindi per lei tutta l’arte del passato è uno schifo?
No, no di certo. Michelangelo? Michelangelo fu un genio, il primo grande astratto che si esprimesse per mezzo del concreto. Voi, eruditi storici dell’arte, travisate ogni cosa. Pure Leonardo per me era un genio. Anzi, le dirò di più. Grazie a Da Vinci, mi sono avvicinato al vegetarianesimo. Ne sono convinto come di una nutrizione di uomo superiore.
La vorrei lasciare con una sua opera che s’intitola Elasticità. Se lei dovesse vendere ai lettori questo suo dipinto, cosa direbbe?
Una sola cosa: chi riesce a vedere un cavaliere sul suo cavallo?
Grazie Boccioni per questa intervista.
Se volete scoprire le opere di Umberto Boccioni potete recarvi fino al 3 luglio 2016 presso Palazzo Reale a Torino, dove la mostra Umberto Boccioni. Genio e memoria, raccoglie oltre 300 opere tra dipinti, disegni, sculture, incisioni e materiali d'archivio, con prestiti dal Museo del Novecento e dalle collezioni del Castello Sforzesco.
La mostra ripercorre gli esordi fino ad arrivare al suo approdo al Futurismo. Una mostra per capire come Boccioni rivoluzionò l’arte.
Consigli di lettura
Scritti d’arte di Umberto Boccioni, Mimesis, 2011.
Vita di Boccioni di Gino Agnese, Camunia Editrice, 1996.
[1]G. Agnese, Vita di Boccioni, Camunia Editrice, 1996.
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