Umberto Boccioni cent'anni dopo, un uomo del XX secolo
Umberto Boccioni nacque a Reggio Calabria nel 1882, anche se in realtà di famiglia romagnola: il padre lavorava come prefetto e questo portava la famiglia a spostarsi molto. Da questi spostamenti Boccioni imparò tantissimo. Non solo di pittura. Quando nel 1907 si stabilisce a Milano, la città è in piena trasformazione. Qui conosce Filippo Tommaso Marinetti e i futuristi, che volevano rompere con tutto e far correre e velocizzare ogni cosa.
In Italia c'è voglia di ricominciare: nel 1908 un terremoto distrusse Messina, radendola al suolo. A Milano, Boccioni dipinge un quadro dalle origini angoscianti, La città che sale. Lì un cavallo è già simbolo che travolge gli uomini in una marea altissima tra case in costruzione. È un momento di gradissimo entusiasmo. Boccioni continuava a viaggiare. Chiamava Parigi “il cervello del mondo” e la amava come nessun'altra città, forse al pari di Milano, tumultuosa e scioperaiola. Pensava che chi non fosse diretto a Parigi non dovesse essere nemmeno preso in considerazione. A Roma arrivò a un passo dal suicidio, si vide rovinato. Di quei giorni in Francia noi sappiamo tutto: l'indirizzo, le spese, poche per la verità, le tantissime stazioni telegrafiche, il thè bevuto in grandi quantità. Boccioni lavorava tutto il giorno, alle otto di sera rientrava sfinito.
Questo continuo trasferirsi era però deleterio: qualsiasi cosa dipingesse andava perduta, regalata, distrutta o venduta. Un enorme peccato, perché in pochi possedevano la sua percezione della misura. Tutto in Boccioni palpita, freme, ma l'uomo non aveva la stessa tempra di Balla o Marinetti.
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Scriveva tantissime lettere per chiedere giudizi segreti, affidandosi completamente all'amico di turno. Era di un'abnegazione estrema, non credendo mai di esserne all'altezza: vorrebbe amare molto la fidanzata Ines, rigida, altera, ma ne vede solo l'inutilità; Alla vigilia di Natale del 1911 scrive a Gino Severini, con cui parlava per giorni interi, parole terribili: vivrà due mesi di silenzio.
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Nel 1911 dipinge quanto di più bello c'è nella sua vita artistica, la serie degli Stati d'animo. A Parigi ne sono tutti sbalorditi, è un trionfo assoluto. Boccioni rimase sorpreso, ma mai quanto Apollinaire, Picasso, Carrà, gli americani, i russi, i tedeschi; si sente amatissimo, non gli mancano le risate di scherno e la compassione italiane. Ora Boccioni vive, per la prima volta, di certezze. Sa, per esempio, di non poter più tollerare l'immobilismo italiano.
Boccioni era preoccupatissimo dal denaro; si perdeva tra marchi e franchi. Non sapeva il tedesco: così utilizzava traduzioni improvvisate per far sì che i conti tornassero. Viveva spesso in ristrettezze, ma sapeva accontentarsi.
Nelle lunghe ore notturne di Parigi, Boccioni lavora incessantemente, in modo febbrile: dipinge, scolpisce, scrive. Vive senza donne al fianco, per quel che possiamo saperne. La sua è una vita d'ordine rigorosissimo, il suo cervello ha bisogno di calma e lavoro. Conosce D'Annunzio che si dimostra di una «squisita gentilezza» e con lui consuma colazioni raffinatissime; scrive a Sibilla Aleramo che legge, consiglia e, forse, ama.
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Qualche anno più tardi, in Europa arriva il primo conflitto mondiale, i due estremi opposti si incontrano: Boccioni e la sua mobilità, il viaggio continuo e la guerra, la terribile realtà statica delle trincee. «Voglio lavorare ma l'ansia che tiene tutti me lo impedisce forse... – scrive – Dovrei ritirarmi in campagna ma... e la guerra?». È lontano da Milano e da Parigi, coi suoi progetti e i pensieri, dorme all'aria aperta per svariati giorni: è una rara gioia, anche se da un momento all'altro si aspettava l'avanzata nemica.
A trentaquattro anni, la vita stava per dare tutto a Boccioni. «Da quest'esistenza io uscirò con un disprezzo per tutto ciò che non è arte. Nulla è più terribile dell'arte. Tutto ciò che vedo al presente è un gioco di fronte a una buona pennellata, a un verso armonioso, a un giusto accordo», scriveva ancora nell'agosto 1916, prima che un cavallo lo disarcionasse fatalmente a Sorte, a cinque chilometri da Verona, che non avrebbe mai visto.
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