“Tutto il mare tra di noi” di Dina Nayeri
Tutto il mare tra di noi è il titolo del romanzo d'esordio di Dina Nayeri, scrittrice e professoressa, conosciuta soprattutto negli Stati Uniti per la sua versatilità, insignita di riconoscimenti per il suo libro (Barnes and Noble Discover Great New Writers book), tradotto in venti Paesi, in Italia uscito per Piemme nella traduzione di V. Februari. Con Tutto il mare tra di noi, Nayeri offre ai lettori uno sguardo intimo e viscerale sull'Iran, luogo che le ha dato i natali, ricostruendo uno scenario, quello degli anni Settanta nel pieno della rivoluzione khomeinista, che procede attraverso i ricordi della protagonista e delle persone a lei vicine, un mosaico di arretratezza ed eredità spirituale, bagaglio culturale e conoscenza, che indaga il significato dell'abbandono in patria e oltreoceano.
I ricordi di Saba Hafezi si incrinano come cristallo sotto la spinta di sollecitudini, eppure lei si sforza, cerca di rimettere insieme i pezzi di una storia smagliata dai racconti degli adulti, dalla fragilità psicologica di Saba stessa. Sua madre è partita per l'America e insieme a lei la sorella gemella, Mahtab. Saba, invece, è rimasta in quel piccolo villaggio iraniano, con il padre. Il racconto si infittisce di pensieri, riflessioni, immagini, atomi di un tessuto poroso che ridisegnano la dimensione privata della protagonista che abbraccia uno spazio e un tempo definiti.
Lo spazio. Il villaggio. I divieti, la paura, il bisogno di nascondere la propria femminilità (i capelli appena tinti di rosso) sotto al velo, la sete di cultura comprata per pochi soldi e vista, dagli adulti, come merce di contrabbando, merce che potrebbe mettere Saba nei guai. La conoscenza delle lingue come mezzo per accedere a un mondo, quello oltreoceano dove presumibilmente si trovano Mahtab e la madre, dove tutto sembra essere concesso e la libertà è qualità intrinseca del paese stesso. I racconti delle donne del villaggio sono legati alle tradizioni della loro terra, le donne che il padre sceglie per l'educazione di Saba provano compassione per quella bambina, che soffre l'abbandono come un fatto personale e non come un monito del destino, e repulsione al tempo stesso per la sua ostinata volontà di creare e cercare un legame con quella parte di famiglia emigrata in America.
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Quando si è soli, il tempo si costruisce suoi vuoti lasciati da chi avrebbe potuto amarci. E Saba costruisce il suo futuro sul vuoto incolmabile lasciato dalla sorella. Cerca indizi di una vita che può solamente immaginare nei dischi che ascolta, nei libri che legge, nei telefilm. Con bramosia tenta di arrabattare una vita, quella di Mahtab, più libera. La libertà è una componente fortemente intrecciata al tempo: Saba cresce e la libertà si riduce, schiacciata dal peso di un governo ostile a qualsiasi forma d'indipendenza.
Lo sguardo sull'Iran è vigoroso, convince e travolge con il suo accurato flusso di particolari pazientemente sparsi nel romanzo che riconducono a un sostrato ben più antico delle parole e di alcune locuzioni linguistiche rimaste tali nel testo, un sostrato che, in realtà, è un collage di ricordi e immaginazione. Come Mahtab, anche la Nayeri è emigrata in America all'età di dieci anni. La storia narrata è, quindi, il sogno ribaltato: vedere e conoscere l'Iran "che non esiste più". La ricerca è venuta in soccorso all'autrice, nonostante la velocità con la quale cambia la storia sociale e politica dell'Iran moderno. Ritorna il problema delle radici. Saba (o forse l'autrice) deve scacciare gli "spiriti maligni" per riuscire a costruire il proprio futuro. Lo spauracchio del passato è sempre alle porte ma, basta chiuderle, pensa Saba. Eppure quanto è difficile, quanta fatica ci vuole per smettere di crogiolarsi nel dolore di qualcosa che, forse, non avverrà. Perché a guardare in faccia il futuro ci vuole coraggio e per questo non tutti sono adatti.
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