“Tutto è in frantumi e danza”, combattere o assecondare la globalizzazione?
Uscito da poco nelle librerie, Tutto è in frantumi e danza è il romanzo scritto a quattro mani da Edoardo Nesi e Guido Maria Brera, edito da La Nave di Teseo.
Le storie dei due uomini, diversi per personalità, mestiere e vicende passate, s'intrecciano dando luogo a un dialogo che vuole a tutti i costi spiegare il perché, oggi, il nostro Paese (ma in realtà tutto il mondo) si trova nella situazione in cui è, da ogni punto di vista.
In particolare, la domanda cruciale a cui rispondere è: “Come mai la globalizzazione ci ha reso più poveri?”. Sembra una questione difficile da risolvere, ma in realtà, grazie alle parole dei due autori, si capiranno bene alcuni dei motivi che hanno causato questo impoverimento.
Dal boom economico alla “bomba” globale
Prima si è usata la parola povertà, ma c'è da specificare che questa non si riferisce certo alle espressioni artistico-culturali dei vari paesi. Infatti, se oramai possiamo considerarci cittadini del mondo, forse per molti l'unico aspetto positivo che deriva da questa situazione è quello di poter conoscere e ammirare la bellezza, la storia e le testimonianze delle culture di altri popoli.
Questo, però, non basta perché sopra tutto, purtroppo o per fortuna, c'è la signora economia, la finanza...i soldi.
Il dialogo tra Nesi e Brera parte proprio da un periodo in cui l'Italia era sì ancora un po' fragile, dato che usciva da una guerra mondiale, ma allo stesso tempo forte perché, dopo aver toccato il fondo, era pronta a ripartire. La gente si sentiva piena di speranza, determinata, in quegli anni del boom economico, fiera delle proprie capacità, le stesse che diedero vita a molte piccole-medie, ma anche grandi, imprese che non avrebbero conosciuto crisi per diversi anni a venire.
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È così che Edoardo Nesi ci racconta dell'azienda di famiglia, operante a Prato nel settore tessile, e di come in genere l'Italia «offrisse opportunità a chiunque voleva impegnarsi e spargesse nella società un benessere che poteva essere definito democratico».
La fiducia nel futuro, nel progresso, negli anni 2000 si percepiva costantemente nell'aria. L'avvento dell'era globale, dove le comunicazioni non avrebbero più avuto ostacoli, così come la libera circolazione del sapere, stava per essere celebrato come il periodo più florido di sempre perché, di certo, tutti ne avrebbero tratto vantaggio.
Ricchezza e benessere, pace e serenità, niente guerre, crisi e ingiustizie: il semplice vocabolario di una vita...utopica.
Anche Brera credeva nei princìpi della nuova economia, da bravo uomo di finanza, poiché l'ampliamento dei mercati e la moneta unica potevano considerarsi sinonimo di crescita e legami solidi tra gli stati. Anche lui, infatti, ci spiega come fosse fiducioso nella «finanza, il combustibile dell’incredibile esplosione della rete. Mentre l’industria diventava di colpo un lavorio antico e sporco e il terziario avanzato sembrava ormai essere il futuro delle società occidentali, tutti gli operatori iniziarono a investire in tecnologia».
La globalizzazione dell'economia, come ci dice successivamente Brera, avrebbe portato «all’apertura mondiale degli scambi commerciali, alla cancellazione di dazi e tariffe e barriere doganali e all’introduzione della totale autonomia di spostamento di capitali e servizi».
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A un certo punto, però, qualcosa s'incrina, e non tutti se ne accorgono subito, ma i due autori, invece, diventano sempre più coscienti e capiscono che la tanto lodata globalizzazione non sta portando i frutti sperati.
L'entrata nel WTO della Cina (senza una dovuta contropartita di regole e garanzia di diritti), le banche che s'indebitano, gli Stati che vedono il loro debito pubblico salire sempre più, in un circolo vizioso senza uscita sono solo alcune delle conseguenze della globalizzazione.
Molti si chiedono come si sia arrivati a questo punto e davvero scioccanti sono le vicende che racconta per primo Edoardo Nesi, quando ad esempio dice:
«[...] i cinesi non compravano i nostri tessuti perché avevano cominciato a produrli per conto degli stilisti che un tempo erano i nostri migliori clienti e ora ci voltavano le spalle per risparmiare qualche soldo […] mentre sui giornali continuavano a proclamare d'essere gli alfieri del Made in Italy».
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Non è tutto, però, perché a seguito di questo stato di fatto la sua famiglia si vide costretta a licenziare i dipendenti, a malincuore e con le lacrime agli occhi, e lo stesso accadde in altre realtà.
Dal boom economico all'austerity, quindi, fino alla consapevolezza che questa globalizzazione è solo una favola, non ben compresa sin dal principio e tutt'altro che applicata oggi.
Il risultato è palesemente sotto gli occhi di tutti noi, perché anche i più ignari e ciechi vedono che non c'è uguaglianza nelle condizioni sociali, nei diritti e nelle possibilità... come le precedenti generazioni sognavano.
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Chi perde il lavoro si trova a braccetto con quei giovani che lo cercano e non lo trovano, aumentando l'esercito dei disoccupati, e allora la frase chiave che viene citata nel romanzo, e che rispecchia lo stato delle cose è questa: «[...] una civiltà è sana finché offre al suo popolo un'opportunità di crescita».
E allora come fare per tornare a una situazione di sanità? Magari riacquistando quei valori che animavano i nostri padri negli anni Cinquanta? Sicuramente l'Italia ha delle grandi potenzialità in tutti i campi, del sapere, dell'artigianato, dell'arte, della cultura e della scienza, basterebbe solo che ognuno di noi ci credesse un po' di più e che lo Stato cominciasse a comprendere quali siano davvero le cose importanti su cui investire.
Per la prima foto, copyright: Slava Bowman.
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