"Tschick" di Wolfgang Herrndorf
Fra i candidati al premio letterario della Leipziger Buchmesse, uno dei favoriti quest’anno è stato il romanzo “Tschick” di Wolfgang Herrndorf.
L’autore, nato nel 1965 ad Amburgo, ha esordito nel 2002 con il romanzo “Plüschgewitter”, nel 2008 ha ottenuto il prestigioso Deutscher Erzählerpreis, con la sua raccolta di racconti “Diesseits des Van-Allen Gürtels”.
Questo romanzo, come dicevo, era partito fra i favoriti della kermesse editoriale di Lipsia. A ragione, da più parti la critica tedesca ne ha lodato lo spirito brillante e questo mi aveva incuriosito.
Ma anche impaurito inizialmente, a causa di un radicato pregiudizio nei confronti dei romanzi che narrano di avventure on the road, con protagonisti adolescenti.
È la storia infatti di due quattordicenni, Maik Klingenberg, padre imprenditore edile e madre ex tennista alcolizzata, e del compagno di classe Andrej Tschitschatschow, - un nome cosi impossibile da pronunciare, da venir subito ribattezzato “Tschick” - un “ragazzo di vita”, un ladruncolo, che vive non si sa bene dove, con un fratello che a sua volta vive non si sa bene come, verosimilmente di furti ed espedienti.
Maik si autodefinisce “il noioso”. Oppure “lo Psycho”, a causa dei suoi problemi familiari.
È, insomma, un quattordicenne cui il padre non si fiderebbe nemmeno a lasciar innaffiare l’erba del giardino di casa.
Tschick invece è, come da copione, il ragazzo che ha già esperienza della vita di strada: sa rubare un’auto, sa pure guidarla. E appunto con una Lada scassata - e rubata - Tschick capita a casa di Maik, lasciato solo dai genitori per due settimane, e gli propone un’avventura, una vera vacanza. Una vacanza in Valacchia.
La Valacchia? La Valacchia è solo un nome
Maik è ignorato dai coetanei, è respinto dalla bella della classe (almeno così a lui sembra), è trascurato dagli stessi genitori; insomma, è soffocato da una realtà così deprimente, da decidere di partire per un paese quasi immaginario, un paese di cui sul principio non crede nemmeno all’esistenza.
Questo viaggio senza cartine stradali né cognizioni geografiche verso una fantomatica Valacchia - che ovviamente non raggiungeranno mai - li porta a contatto con una Sassonia sconosciuta, una Sassonia picaresca.
Spuntano personaggi di provincia che colpiscono nella loro assurda comicità, come il bambino tonto dagli occhi di rana e la sua famiglia. O il vecchio ex soldato, l’unico rimasto in un paesino abbandonato su un altopiano, che li accoglie a casa sua a fucile spianato e racconta loro della sua gioventù nell’esercito del Reich, benché comunista.
O la terribile ragazzina Isa, conosciuta in una discarica, una bisbetica temperamentosa senza famiglia e puzzolente, che però li aiuterà, rivelandosi quasi più furba di Tschick, e li seguirà per un tratto nel loro improbabile viaggio.
Il viaggio finisce in maniera comico-amara con ben due incidenti stradali e il ritorno a una realtà questa sì abbrutente.
Herrndorf non ci risparmia l’ipocrisia e la violenza del mondo adulto in una scena che non ha più niente di comico, la scena di un padre che picchia il figlio (Maik) senza alcuna pietà, davanti a una madre ormai indebolita anche mentalmente dall’alcool e incapace di qualsiasi opposizione.
Entrambi i ragazzi si ritrovano per l’ultima volta in una sala di tribunale.
Tschick è condannato al riformatorio e all’amico Maik, cui viene comminato l’obbligo di prestare un servizio civile presso un istituto di handicappati, non resta che aspettare davvero tempi migliori.
Il romanzo si chiude con la madre di Maik che, cercando di compensare la sua incapacità di reagire alla violenza fisica e psicologica del marito, lancia nella piscina di casa cellulari, mobili e quadri di casa, fra la soddisfazione del figlio e lo scandalo dei vicini.
Perché mi ha colpito “Tschick”?
Mi ha colpito innanzitutto per la vivacità con cui i personaggi - protagonisti e non - sono stati tratteggiati.
Una vivacità, un’arguzia, ma soprattutto un disincanto che non lo confinano ad un genere per adolescenti solo perché i protagonisti sono adolescenti. O solo perché buona parte della sua struttura poggia su uno stereotipo rodatissimo, quello della coppia “bravo ragazzo”/”poco di buono”.
Mi ha colpito la leggiadria, il tono apparentemente scanzonato, che ha fatto ricordare a certa critica entusiasta un classico immarcescibile come Huckleberry Finn.
Certamente si tratta di un giudizio esagerato e Herrndorf non è Mark Twain.
Ma è innegabile a mio avviso l’ironia, l’acutezza nel descrivere le situazioni e i personaggi minori che via via i due ragazzi incontrano nella loro sconclusionata avventura verso l’ignoto (è il caso di dirlo).
La lettura di Tschick però lascia anche un retrogusto molto amaro.
Dietro alla superficie brillante, divertente, spesso irresistibilmente comica, questo romanzo nasconde infatti un forte nichilismo.
Nichilismo che è poi il tratto caratteristico di Andrej Tschitschatschow e che salta fuori con più evidenza nelle pagine finali, lasciando una strana sensazione di soffocamento.
Herrndorf sembra dirci infatti che non c’è via di uscita per ragazzi come Maik né per ragazzi come Tschick e che ogni tentativo di fuga, ogni piccola ribellione - e quindi ogni cedimento - sono subito repressi, affogati, soffocati nell’ipocrisia e nella violenza del perbenismo.
Non c’è speranza in fondo, e se alla fine del libro, pare comparirne una (Maik riceve quasi per miracolo una lettera di Isa con la promessa di un nuovo incontro), si tratta di una fiammella talmente flebile da doverla nascondere con cura.
In Conclusione
Herrndorf ha senz’altro compiuto un notevole gioco di equilibrismi: da un materiale e una struttura fin troppo rodati, che in altre mani sarebbero scaduti in qualcosa di già visto e triturato, è riuscito con intelligenza a formare un romanzo notevole per ritmo narrativo e per abbondanza di spirito caustico e anticonformista. Un tipo di spirito che, a mio umile avviso, è sempre una benedizione.
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