Troppa poesia per un romanzo. “Il libro delle case” di Andrea Bajani
Suona imbarazzante recensire un testo la cui qualità paradossalmente a giudizio del recensore costituisce pure il suo difetto. Cercheremo di spiegarne le ragioni.
Strano caso il romanzo di Bajani: il bello prevale sul brutto, ma è proprio il bello a provocare la riserva sulla tenuta complessiva del libro. Per bello si intende un eccesso di poesia. O meglio: la scelta poetica dello scrittore nel trattare il tema prefissato.
Tema indubbiamente stimolante. La casa come contenitore e diffusore di famiglia e solitudine, amore e dolore, vita e morte. Che un simile oggetto, dei più concreti, fatto di mattoni e calcestruzzo, cemento armato, ferro, legno, pietra, venga trattato poeticamente è da considerarsi senz'altro “valore aggiunto”. Ma troppe espressioni poetiche non è detto formino un romanzo. Nel caso in questione l'opera di Bajani si potrebbe considerare “componimento” e lasciare la definizione in un’ambiguità appositamente studiata per evitare di definire il “genere”.
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Si può dire che in un'opera letteraria c'è troppa letteratura? (Musil si chiede se l'intelligenza è intelligente, ma lui era Musil, se lo poteva permettere). Probabilmente no, ma leggendo il libro di Bajani si è tentati di affermarlo.
Oltre che imbarazzo costa un senso di colpa insinuare che nella prosa poetica di Bajani si trovi a volte un grado di insopportabilità. Il recensore non può estraniarsi dal soggettivismo di ciò che non sopporta, e nemmeno può negare che le sue incompatibilità non formino un giudizio di merito quanto una idiosincrasia. Disturbo nervoso. Come una mosca che incessantemente ti ronza nell'orecchio per ore e ore. Detto questo, il recensore può autorizzarsi a più razionali e pacate considerazioni su quanto letto. Perché Bajani che pur ha al suo attivo raccolte di poesie, non ha scelto la via totalmente lirica? Insomma, perché non poesie al posto della prosa poetica? E se la scelta della prosa è in lui irresistibile (all'autore non si comanda), perché non alternare alle sue pur notevoli trasfigurazioni periodi che in mancanza di termini più puntuali si possono chiamare “realistici”. Duecentocinquanta pagine di prosa poetica pesano.
Serpeggia la commozione, il pathos della solitudine e dell'impossibile concordanza della vita con la felicità, ma manca l'empatia, evidentemente non cercata dall'autore o cercata nella sua versione più elaborata (l'empatia non è indispensabile caratteristica della fruizione letteraria, a volte anzi la guasta, ma un tema come la casa non può sfuggire a una certa dose di immedesimazione da parte del lettore, pur in un'accezione che contempli astrazione e trascendenza). Deriva che il lettore è chiamato a elaborare ciò che per primo è fittamente elaborato. La cosa costa fatica più che l'interpretare la metrica e la sintesi del componimento poetico, in quanto il lavoro di sintesi che nella poesia astrae la complessità dei sentimenti e delle emozioni qui viene appesantito dall’insistita scelta della metafora e della trasfigurazione. È questo a nostro avviso il difetto di un testo troppo raffinato che smorza anziché promuovere penetrazione e partecipazione. Un testo zeppo di frasi belle, rarefatte, sicuramente ispirate, che indicano nell'autore una grande bravura compositiva ma che finisce col comporre troppo, a scapito della comunicazione che non si fa comunione. Si potrebbe parlare di monumento alla parola, trionfo della frase e della sequenza evocativa, combinazioni e associazioni ricercate, spesso azzeccate, sicuramente partecipate dall'autore, ma che vanno per conto loro, che rispondono a se stesse, trofei letterari da custodire in torre.
Per contrasto viene da pensare a quanto Gombrowicz consigliava: «Sporcare la pagina». Bajani non sembra farlo, nonostante tratti temi “sporchi” come l'adulterio, l'assassinio, il ladrocinio, sempre attento a non abbandonare la via poetica. Altro magistero inascoltato: la raccomandazione ai giovani scrittori redatta da Gadda: «Prendere lezioni da un fabbro ferraio». Bajani non si preoccupa di “artigianato” (lo stesso consigliato da Joyce) nel trattare i manufatti delle case; non manca di descriverne le planimetrie e gli arredi, ma sempre ottemperando all'architettura dello spirito, anche quando parla di travi, soffitti e pavimenti. Belle soluzioni, ma sempre un po' troppo insistite e soffocanti.
Bisogna dire che Bajani non sembra compiacersi di uno scrivere alto, non si esprime con egocentrismo ma sotto effetto di epifania. La commozione, come la disperazione, è sicuramente sentita, non è l'autore a infastidire come figura autoreferenziale, il trasporto del suo testo è indubbio, e proprio in ciò consiste il suo difetto: la fede nella letteratura alta. L'affidabilità del componimento letterario, a prezzo del ricamo. Soccombere al canto delle sirene della Letteratura.
Pur trattando esperienze vissute, probabilmente autobiografiche, nessun nome designa i personaggi, ma solo i titoli Io, Padre, Madre, Fratello, Sorella, Nonno, Nonna, Zia, Parente, Amico, Poeta, Prigioniero... Una scelta universale, degna del Mito, che compendia e celebra lo status della letteratura. In tutto il romanzo si susseguono forse centinaia diIo, Padre, Madre ecc… Una sequenza infinita che diventa ossessiva e disturbante, almeno per chi ora redige questa recensione.
Naturalmente non si possono omettere gli elogi per quanto Bajani abbia indovinato certe scelte non soltanto stilistiche. La presenza di una tartaruga negli spazi e nelle intercapedini della casa, in cui Io proietta identificazione e simboli esistenziali, è indubbiamente una bella invenzione che funziona da contrappunto alla solitudine di Io e ai suoi tentativi di compensarla con affetti trascendenti. Semmai a nostro avviso, è troppo ricorrente nel romanzo, da rischiare il manierismo e il compiacimento.
Il tema è bello, così come è bello il titolo: Libro delle case (forse è proprio ilLibro il prevaricante vincolo stilistico). Il peregrinare da una casa all'altra, tra una pagina e l'altra della vita e delle quattro mura. I vari sfondi possibili, e impossibili visti dalle finestre: città, cemento, campagna, alberi, centri e periferie e altro. La condannata stanzialità e sofferta convivenza familiare. Lo spreco abitativo là dove la casa diventa grigio ufficio, se non prigione, casa non più casa, fatta di bui cunicoli anche se disposta linearmente di vano in vano. La metafora è implicita nella casa, non occorre forzarla più di tanto. Là dove insomma la vita porta a vivere il locatore (della vita), là dove la metafisica è anch'essa implicita tra le quattro mura. Il fascino del testo di Bajani è il fascino riflesso dal tema.
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Composto di ben settantotto capitoli e altrettante case, non pochi spiccano per riuscita aderenza espressiva. Oltre a quello citato della tartaruga compagna di esistenza. Centrata la vita domiciliata a Parigi, le quattro mura tra stanzialità e provvisoria consustanzialità, portano a comporre pagine (ogni casa occupa a volte nemmeno una pagina) davvero indovinate: la fuga dei tetti, l'impennarsi di comignoli, muri, abbaini, sobbalzi e rientri murari che formano la nota tipologia dei tetti parigini.
Meno indovinate le pagine, le case, che riguardano la morte di Pasolini e di Aldo Moro, e la figura di Moravia. Apprezzabile l'intento dello scrittore di comporre, o alludere, di casa in casa, uno spaccato di vita nazionale e di drammatici richiami sociali e politici, ma i riferimenti alle (spettacolari) morti del poeta e dell'uomo politico, sembrano immessi a puro titolo di cronaca, a obbligato inserto civile.
Per concludere: perché i soli Io, Padre, Madre, Figlio, Nonna, Zia, Nonno, Amico… rigorosamente in maiuscolo? Una escrescenza, a parere nostro, davvero fastidiosa.
Perché questo ostracismo verso i nomi di persona? Così vuole Poesia. Volere insindacabile, ogni scrittore è sovrano, così come lo è pure il recensore che in questo caso probabilmente eccede nel libero arbitrio.
Per la prima foto, copyright: vu anh su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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