Tre donne contro il medioevo americano. “I testamenti” di Margaret Atwood
Trentacinque anni dopo Il racconto dell’ancella, Margaret Atwood licenzia il suo seguito, I testamenti, pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie nella traduzione di G. Calza. Nella finzione, tuttavia, il tempo trascorso è di gran lunga inferiore, non più di qualche anno.
Il mondo della storia è quello presentato nel primo romanzo: in un futuro distopico, non troppo lontano dal nostro, messo in ginocchio da una drammatica crisi della natalità e dagli effetti del riscaldamento climatico, un colpo di stato ha dato vita a Gilead, un governo teocratico negli Stati Uniti nord-orientali dominato da una forma radicale ed estremista di cristianesimo. I testi sacri sono conservati segretamente, non vengono letti, alle persone se ne fornisce solo una prevaricante interpretazione. Chi ha modo di entrarci in contatto viene messo in guardia: “non c’è scritto quello che dicono loro”.
Il risultato è una società fortemente gerarchizzata, nella quale la donna, del tutto subordinata all’uomo, svolge un ruolo ancillare. Al vertice ci sono i comandanti, dai compiti politici e militari. Accanto a loro le mogli, spesso sterili, con un’aspettativa di vita estremamente limitata, e non per cause naturali. Completano l’elenco degli inquilini, le ancelle, costrette a concedere il loro corpo al comandante nella speranza di aggiudicare alla famiglia un erede, e le Marte, governanti, cuoche e donne delle pulizie senza diritti, al completo servizio della casa. Questi sono gli elementi dell’unità abitativa, nucleo fondamentale del sistema sociale di Gilead, così come del nostro. L’educazione delle ancelle, così come quella delle figlie, è affidata alle Zie, un gruppo di donne col compito di gestire il mondo femminile e di risolvere i (tanti) problemi legati a esso. Celibi devote al Signore e a Gilead, le Zie hanno sede ad Ardua Hall, un beghinaggio distopico in cui gli uomini non possono entrare. Le strade cosparse di militari, i fucili spianati davanti a ogni abitazione. Ci sono anche i servizi segreti, gli Occhi, che guardano e vedono tutto.
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Inutile, forse, è dire che questa autoritaria forma di governo abolisce quasi totalmente l’utilizzo della scrittura e della lettura, che sopravvivono solo ad Ardua Hall, monastero americano in un medioevo europeo. E non il medioevo dinamico e affascinante che ha riscoperto la recente storiografia, ma quello vecchio, l’alto, in particolare, l’epoca buia per eccellenza. In questo mondo, che in gran parte già conoscevamo (anche grazie alle tre stagioni della serie tv, che hanno contribuito ad arricchire quest’universo), ci viene raccontata la storia di tre donne: Agnes Jemima, Nicole e Zia Lydia. Tre punti di vista diversi destinati a intrecciarsi: il primo di una ragazza nata e cresciuta a Gilead, il secondo di una ragazza nata e cresciuta fuori Gilead, in Canada; e il terzo di una donna nata nel vecchio mondo, che si è trovata costretta a veder nascere il nuovo. Agnes si trova a vivere con sofferenza un sistema educativo e sociale da cui, per salvarsi, deve scappare; Nicole perde i genitori, uccisi dall’esplosione di una bomba, scopre di non essere chi ha sempre pensato di essere e si trova invischiata in una situazione più grande di lei; la terza, la celebrata Zia Lydia, combatte per gestire il grande potere di cui dispone, pur cominciando a dubitare dell’efficacia delle strategie messe in atto dal sistema per il benessere e la crescita dei suoi abitanti. Tre punti di vista diversi da quello che l’altro romanzo ha rivelato, quello dell’ancella, la cui figura è ora dipinta solo dall’esterno, con toni tutt’altro che lusinghieri.
A livello strutturale, per quanto non manchino gli elementi di continuità (il racconto affidato a testimonianze tarde, lontane dallo svolgersi degli eventi, nonché la chiusa accademica), diversa è la costruzione, diverso è il ritmo. D’altro canto, è naturale pensare che il pubblico di riferimento del primo sia ben diverso da quello del secondo, ora potenzialmente infittito dai milioni di telespettatori che si sono affezionati alla serie tv. Se Il racconto dell’ancella era costruito per introdurre il lettore nell’immaginario della protagonista, passo dopo passo, nella sua terribile quotidianità, drammatica e asfissiante, I testamenti perde tutto il carico di angoscia e il pathos di cui sono intrise le pagine del primo romanzo. Da una parte, è naturale, il mondo è ora noto, lo si è detto, il lettore conosce già la sua conformazione e le sue problematiche. Dall’altro, tuttavia, così facendo si affievolisce la carica di denuncia sociale, l’attenzione a quel corpo femminile vissuto come una prigione, costrizione e, al contempo, unico strumento di potere.
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Detto ciò, per quanto di gran lunga meno originale del precedente, I testamenti è un romanzo affascinante, magistralmente costruito, per quanto alcune concessioni a moduli (quale il racconto della fuga) oggi trasformati in vuoti cliché dall’audiovisivo avrebbero potuto essere evitate. Chi ha amato Il racconto dell’ancella difficilmente riuscirà – e non a torto – a resistere al richiamo del secondo.
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