Tra nostalgia e adorazione. “C’era una volta a Hollywood” di Quentin Tarantino
Presentato con grande attesa al Festival di Cannes nel maggio 2019, in autunno finalmente – e con un ritardo tanto abissale quanto imbarazzante – approda anche in Italia quello che (ipse dixit) dovrebbe essere il penultimo lavoro di Quentin Tarantino, quel C’era una volta a Hollywood che si è già premurato di lasciare dietro di sé una coda di reazioni divergenti.
Senza dubbio, si tratta di una pellicola estremamente ambiziosa, diretta con uno spirito allo stesso tempo crepuscolare e adorante, nostalgico ed esagitato.
Lo sguardo che Tarantino ha sempre dedicato al materiale culturale di seconda linea, per il quale non ha mai nascosto di nascondere un sentimento viscerale in quanto personale viatico al mestiere e all’anima del cinema, affiora qui cesellato da un’accortezza più fine e attenta al dettaglio rispetto ad altri già consacrati (capo)lavori del regista.
C’è l’age d’or del cinema hollywoodiano in un cruciale momento di transizione (il passaggio alla New Hollywood anni ’70) a comporre a mosaico lo sfondo di una vicenda a sua volta – come da abitudine tarantiniana – quinta ideale del tramonto della summer of love, segnato dall’eccidio di Cielo Drive (quello di Sharon Tate, ispirato da Charles Manson), dalle derive psicotiche della cultura hippy, da una libertà sempre più disinibita che finisce con l’aggrovigliarsi su se stessa. I protagonisti segnano una dicotomia, anche metaforica, tra il cinema osservato sullo schermo e il cinema prodotto, costruito, girato e vissuto: Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e Cliff Booth (Brad Pitt) sono infatti un attore, ex-celebre, ormai in verticale declino, e il suo stunt-man, tuttofare e quasi amico, e rappresentano pienamente l’orizzonte lontano dalle produzioni mainstream così tanto amato da Tarantino. Il colpo d’occhio della sceneggiatura trasferisce – in maniera vincente – alla vita reale questa bizzarra dicotomia: Cliff finisce con l’essere una costante ancora all’inettitudine cronica di Rick, incapace di accettare il proprio declino e ormai quasi totalmente apatico nella spirale della sua autodistruzione.
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Come sempre in Tarantino storia reale e distopia s’incrociano sovvertendo le comuni rigidità di lettura dei fatti: del contesto di una Hollywood che muta vi è poco in primo piano, ma tantissimi dettagli aiutano a capire che lo sguardo dello spettatore viaggia su una china fragile, in prossimità di un cambiamento repentino. Un cambiamento che però la narrazione cinematografica propone (in questo come in altri casi della filmografia del regista) su un doppio piano: da un lato un’aderenza parossistica a nomi, luoghi, atteggiamenti e mode, dall’altro lo scarto sul climax finale, che se distorce la realtà lo fa in nome di un omaggio sognante al carburante narrativo di cui un certo tipo di cinema si nutre. Se ne può dunque dedurre che, in questa più che in altre operazioni analoghe, l’affetto dell’autore per i personaggi disegnati nello script sia dichiaratamente sincero e incondizionato; la costante impressione di artificiosità che in molto Tarantino del primo decennio Duemila era sempre dietro l’angolo, pronta a riaffiorare in virtuosismi citazionistici spesso sterili e ripetitivi, assume in questo caso tutt’altri connotati. Come nota Francesco Boille su «Internazionale», Tarantino e il "suo" cinema appaiono ormai fusi in un’unica identità, lungo un percorso costruito negli ultimi venticinque anni, dove mano, firma e stile si sovrappongono in un flusso indistinguibile.
In questo caso, anche per merito di precise scelte di costruzione del racconto e dei personaggi, la scelta si dimostra azzeccata, e fuor di metafora lo spettatore ne può carpire la potenza condensata nel personaggio di Margot Robbie/Sharon Tate, in particolare nella poderosa sequenza in cui la Tate si reca al cinema a osservare non tanto la sua performance sul grande schermo in un film piuttosto trascurabile, ma a osservare in un’incognita ammirazione i commenti e le risate degli altri spettatori, momento altissimo di realizzazione meta-cinematografica che fa parte a pieno diritto della mano del regista.
Nel quadro di gioioso e tragico tramonto di un’era (cha avrebbe aperto ad un’altra, ben più cupa e altrettanto complessa e sfaccettata) i disincantati loser dell’universo tarantiniano traghettano lo sguardo dello spettatore attraverso un caleidoscopio di ambizioni frustrate, amicizia, stravolgimenti storici.
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Un folgorante Brad Pitt, vero motore comico e narrativo del film, ruba spesso e volentieri la scena a un DiCaprio crepuscolare e autodistruttivo, molto impegnato a cesellare un personaggio che nel corso delle quasi tre ore di racconto prende il posto della sua ombra.
Probabilmente, più che l’omaggio a un cinema che non esiste più, C’era una volta a Hollywood è anche il racconto di rapporti umani drasticamente cambiati al passo di mutamenti – sociali e dello show-biz – impossibili da arginare.
C’è stato una volta a Hollywood, probabilmente non ci sarà mai più.
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