Tra ‘ndrangheta e caporalato – Arancia meccanica a Rosarno
Non mi rivela il suo nome, perché ha paura di essere preso a colpi di arma da fuoco dai caporali e dalla ‘ndrangheta. È nero, raccoglie arance a Rosarno e vive, come tanti (troppi!), tra due pareti di tela sormontate da una copertura di cartone imballato nella plastica.
Questa è Rosarno, una delle piazze peggiori per i braccianti stranieri in Italia. Pochi anni fa qui si scatenò la rabbia dei bianchi calabresi contro i neri. Non ci scappò il morto per un soffio, ma il terrore serpeggia ancora, rinvigorito in questo inverno 2015/2016 da una nuova ferocia criminale, dall’esigenza di fare cassa nel periodo natalizio.
«Non prendermi in giro. Io, il mio nome non te lo do»
«Non lo voglio, ma voglio sapere come fai a vivere qui»
«Sono sette anni che vengo a Rosarno. Ogni anno è peggio. Quest’anno vengono a prendermi alle cinque, mi portano al campo senza darmi da mangiare. Devo abboffarmi la sera, se voglio riuscire a lavorare. Se no… muoio di fame sotto gli alberi»
La stampa locale ha registrato una recrudescenza criminale nella Piana di Gioia Tauro e in tutta la Calabria per la raccolta degli agrumi. Contro i braccianti si gioca ancora una guerra senza esclusione di colpi.
«Guarda le mani! E per fortuna non fa ancora così freddo!»
Screpolature, geloni: una somma di rughe vecchie e nuove, un reticolo di piaghe. La raccolta questo lascia, come segno della cattiveria dei produttori agricoli. La pelle dei nuovi schiavi segnata dalla durezza del tempo e del lavoro.
«Te la sei fatta tu, questa capanna?»
Annuisce. Per sua fortuna non ha dovuto pagare per stare qui, ma ha paura, perché a quanto pare nottetempo gruppi di calabresi rapinano i braccianti centrafricani. La stessa cosa avveniva, e forse avviene ancora, nell’alta Campania e nel ragusano.
«Rapine?!», allibisco.
«Rapine, sì. E se uno si ribella…»
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Bande di criminali autoctoni che recuperano e rimettono in circolo il poco denaro con cui vengono pagati questi lavoratori. Nella raccolta delle arance, ganghe di balordi si divertono a taglieggiarli, picchiarli e rapinarli. Siamo di fronte a una forma spropositata e disumana di ingordigia, di avarizia, di cattiveria e di razzismo.
«Ti pagano a giornata?»
«Da quando stanno questi che vengono la notte, mi faccio pagare alla fine della stagione»
«E ti fidi?»
Non mi risponde ma guarda altrove, nel vuoto. Deve fidarsi, non può far altro. Magari chi li rapina e chi li paga sono pezzi del medesimo sistema, ma a lui non importa. Deve lavorare, mandare i soldi a casa, sostenere una famiglia, una comunità. Gli altri, i caporali, devono mantenere un clan, una rete criminale.
«E se viene questa banda, cosa fai?»
«Scappo!», esclama.
Mi torna alla mente una scena di Mississipi Burning. Neri rincorsi da bianchi, privati della libertà, della parola, della dignità di lavorare per uno stipendio, e della vita. Ricucio i pezzi di un sistema nazionale e mi dico che in Italia non siamo più così distanti da quel sistema schiavistico sul quale parte della grande economia agricola del Sud degli Stati Uniti d’America ha fatto fortuna fino agli anni Sessanta. Duole ammetterlo, ma le cose stanno davvero così.
«Quanto manca alla fine della stagione?»
«Ventuno notti», dice.
Conta le giornate in notti, perché la notte mette terrore addosso. Lo saluto e me ne vado stringendomi nel cappotto. Il freddo pungente della Calabria di inizio inverno mi intristisce, ma non di più della confessione di questo ignoto fantasma.
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