Tra Kafka e Stephen King. “Il testamento dell’uro” di Stéphanie Hochet
Il testamento dell’uro di Stéphanie Hochet (Voland – traduzione di Roberto Lana) riconferma l’abilità della scrittrice a mescolare toni e ritmi così come aveva fatto in Sangue nero, Elogio del gatto e Un romanzo inglese. Questa volta a sorprendere il lettore non è solo la storia in sé ma l’evolversi della stessa in un crescendo sempre più inquietante e tragico.
La protagonista è una scrittrice che viene invitata a prendere parte a un festival letterario nel sud della Francia. Nella cittadina di Marnas, luogo incantevole immerso nel verde e nella tranquillità, viene ospitata da una strana coppia di coniugi il cui comportamento nonostante sia gentile e premuroso sembra nascondere qualcosa di inquietante. A questi si aggiunge il sindaco del paesino, Vincent Charnot, amante della caccia e del Medioevo nonché della tassidermia, tanto da aver messo in piedi un museo di animali imbalsamati. La tassidermia è anche uno degli argomenti che la scrittrice tratta nel suo libro, un mestiere artigianale, ma allo stesso tempo artistico che intreccia la morte e l’illusione della vita. Charnot propone alla scrittrice di scrivere un racconto che abbia come protagonista l’uro, il Bos taurus primigenius, animale preistorico dalle lunghe corna ricurve simbolo di virilità e di superiorità sull’uomo che lui vuole riportare in vita grazie ad alcuni esperimenti. La donna decide di assecondare il progetto folle del sindaco e comincerà a studiare l’uro e a scrivere un’opera che via via la coinvolge sempre di più trascinandola in un labirinto di eventi in cui il lettore stesso viene trascinato. A metà tra realtà e fantasia, antico e moderno, la vicenda si snoda fino all’epilogo, tra le antiche vie del paese e i boschi che lo circondano.
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Il sogno di Charnot è lo stesso dei fratelli Heck, biologi nazionalsocialisti che, nella Germania degli anni Venti, tentarono esattamente la stessa sperimentazione. L’uro, enorme bovino preistorico, largamente presente nell’arte rupestre e nelle grotte di Lascaux o di Chavet, rappresentava l’esempio ideale della natura primitiva sognata dai nazisti per cui doveva tornare a essere una divinità per gli uomini, così come lo era stato nel Paleolitico. Questo è anche lo scopo di Charnot, il quale si serve di una scrittrice che nei suoi romanzi riserva sempre un ruolo centrale agli animali, essendo convinta che «la scrittura deve permettere di ritrovare l’animale che è in noi, ritrovare la spiritualità che ha spinto i nostri antenati del Paleolitico a dipingere immensi uri e mammut all’interno delle grotte» e che ora, attraverso la biografia dell’uro, farà conoscere quest’animale al mondo. La scrittrice diventa così il mezzo per la realizzazione di un progetto ardito oltre che pericoloso. Quando si renderà conto di aver commesso un grave errore di valutazione sarà troppo tardi.
Ciò che colpisce dello stile di Stéphanie Hochet è la capacità di cambiare il ritmo della narrazione attraverso la metamorfosi del personaggio. Il linguaggio fluido e i toni rilassati cedono sempre di più il posto a un’angoscia crescente espressa in maniera efficace dal continuo dialogo che la protagonista ha con se stessa. Istinto e ragione si mescolano, la sottile lama della follia penetra sempre di più nel tessuto morbido della narrazione fino a mescolare realtà e immaginazione in un continuo gioco di specchi deformanti. Uro e Minotauro si sovrappongono nella mente della scrittrice perché come recita la citazione di Marguerite Yourcenar in esergo «Chi non ha il suo Minotauro?»: il suo scopo è quello di fuggire dal labirinto che la tiene prigioniera e voltare pagina:
«Non oso ancora immaginare la gioia che proverò una volta uscita da qui, la liberazione tanto attesa. Se avrò l’intelligenza di agire con calma e precisione, mi aspetta una nuova vita. La liberazione mi darà l’impressione di rinascere. Non rivivrò mai più le lunghe giornate in questa campagna assurda, volterò pagina e chissà? un giorno, magari, potrò anche scrivere quello che è successo».
Anche la descrizione dei paesaggi è efficace alla narrazione. Il ritratto della Francia del sud che emerge dalla penna di Hochet è quello di una terra strettamente legata alle tradizioni, tenebrosa, rurale e arretrata; bellissima nei suoi paesaggi dai colori caldi, nelle morbide colline. Una regione di cacciatori dove l’animale selvatico occupa l’immaginario della gente che ci abita. Anche quando non si vedono, gli animali sono nei dintorni, nascosti nel sottobosco dove vivono la loro vita.
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C’è stato un tempo in cui l’animale era la nostra divinità; quel tempo è ancora dentro di noi, nascosto nella memoria collettiva, come una traccia sepolta ma non scomparsa. Ed è questo il messaggio che emerge dal libro: l’uomo ha perso la capacità di sentire la natura perché ha perso l’istinto primordiale. Il sentimento panico ritrovato forse è l’unica possibilità di salvezza per l’uomo-macchina che ha preso il posto dell’uomo-animale. Il testamento dell’uro è un libro interessante nella sua originalità e nella capacità di creare la suspense che mantiene viva la narrazione fino alla fine. A metà tra il noir e il romanzo psicologico non può non far venire in mente al lettore in alcuni momenti topici della narrazione le atmosfere dei racconti di Kafka così come Misery non deve morire di Stephen King.
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