Tra guerre di religione e cinema sci-fi. “Lake of Fire” di Nathan Fairbairn e Matt Smith
Una significativa opera fumettistica apparentemente perfetta per i crepuscoli tardo-estivi. Un riuscito incastro tra racconto di formazione in chiave storica, immerso in uno scenario definito (quello delle guerre di religione) – soprattutto nelle sue contraddizioni – con fedeltà e attenzione, e un omaggio al miglior cinema d’azione sci-fi, sviluppato attraverso molteplici svolte congegnate in maniera abile, a sottolineare una consapevole regia preparatoria. Parliamo del discusso Lake of Fire, di Nathan Fairbairn (autore) e Matt Smith (ai disegni). Preceduto da entusiastiche anticipazioni – negli Stati Uniti si può osservare come miniserie da più di un anno, sparsa in cinque volumi –, tra cui quella dello stesso Robert Kirkman (Image), a metà giugno è uscito in Italia per Saldapress in un unico volume oversized in copertina rigida, per la traduzione di Marilisa Pollastro. Per usare le parole di Kieron Gillen (giornalista e sceneggiatore britannico, autore, tra gli altri, di Phonogram), «Senz’altro il miglior film d’azione su carta dell’anno»: si tratta di un’enfasi giustificata?
Prima di tutto, partiamo dalle premesse che ci consegna una breve sinossi. Francia, 1220 circa, nel pieno delle manovre della Chiesa cattolica per estirpare il Catarismo che imperversa in Linguadoca: il contesto ideale per molti giovani di distinguersi in “imprese”’ al servizio di una “sacra” causa. I protagonisti, i giovani Theo e Hugh, partono dalle loro terre proprio con l’obiettivo di concretizzare un riscatto familiare e personale attraverso l’affermazione cavalleresca. All’interno di questo preciso quadro di ricostruzione storica, si manifesta il radicale avvenimento che sconvolge i piani narrativi: una gigantesca astronave aliena si schianta proprio in prossimità dei territori interessati dagli eventi, e le creature palesano fin da subito un carattere spiccatamente feroce e sanguinario, sterminando un intero villaggio. Da qui, la linea narrativa assume una piega inaspettata e gli accadimenti si intrecciano in un esperimento forse non particolarmente nuovo ma che garantisce a tutti gli effetti una forsennata spettacolarità. I modelli appaiono evidenti e dichiarati, forse talvolta addirittura fin troppo esibiti: come esplicitato anche da diverse tagline, echi de Il nome della rosa (ma anche de I pilastri della terra) – la giovane eretica Bernadette si accompagna alla figura meschina e implacabile dell’inquisitore – impattano su atmosfere gore proprie di una certa fantascienza dell’orrore che affondano le radici in irriducibili ricordi come quelli del primo Alien ma anche de La cosa, come non mancano di ricordare alcune puntuali intuizioni di sceneggiatura.
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L’originalità letteraria non costituisce sicuramente l’ossatura sostenitrice di Lake of Fire, ma non è attraverso questa lente che vanno ricercate le peculiarità del lavoro. In situazioni come queste sembra meglio valutare la qualità organizzativa, e qui le note suonano positivamente: Nathan Fairbairn padroneggia bene il materiale, i personaggi sono delineati con la necessaria ambiguità e costituiscono un ensemble eterogeneo e funzionale al respiro della narrazione. Ogni personaggio gira bene nel proprio ruolo, con caratteristiche che non lo rendono indimenticabile ma perfettamente identificabile: ci si affeziona attraverso un classicoplot d’avventura, e anche se è facile capire con qualche battuta d’anticipo gli scatti della trama non si rimane meno affezionati alla sua evoluzione.
Ad accompagnare la solida architettura dello script interviene il tratto di Matt Smith, estremamente funzionale al risultato. Un disegno pulito, dinamico ma per nulla confusionario (in uno scenario del genere, il rischio era massimo): le trovate di montaggio sono particolarmente indovinate, e non ci si ritrova mai sommersi da inutili barocchismi a fiaccare il ritmo di lettura, che invece procede spedito. Le tavole si sviluppano in un crescendo ottimale, sino a un finale carico di angoscia e l’intensa struttura visiva contribuisce in maniera determinante a mantenere avvinti alla narrazione.
Il risultato è quindi un definito prodotto di intrattenimento, con consapevoli dosi di citazionismo (i riferimenti sono tutti di assicurato e indiscusso fascino): il manipolo dei protagonisti è la sintesi stilizzata di un’umanità composita, che combatte battaglie universali e personali in un momento storico gravato da un razzismo fanatico e persecutorio, appesantita da un’inevitabile sfiducia nel futuro e nel contatto con l’altro. Il peso quasi terroristico della tradizione secolare e il ricatto spirituale di una religiosità agitata come unica patente distintiva verso la salvezza incoraggiano spesso l’individuo ad un egoismo spietato, oppure agli aneliti del sacrificio più puro.
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Con Lake of Fire Fairbairn e Smith non rinunciano dunque al meccanismo della didascalia morale (rispetto e tollerante inclusione come unici viatici alla riconversione dei propri peccati), stemperandola però in una godibilissima giostra ad incastro, dimostrando di poter guardare al di là del genere letterario di riferimento nel costruire una parabola magica sull’orrore e la redenzione.
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