Torino 2017, più fiera che salone
La competizione con Milano, se mai davvero c’è stata, è avvenuta sui numeri. E sui numeri il Salone del libro di Torino è andato molto meglio di Milano. Più visitatori, più editori, più vendite, più ospiti. Ma siamo davvero così sicuri che, a ben vedere, al Lingotto si sia svolto un salone premiante per i piccoli e medi editori?
Sin dall’inizio dell’esposizione i grandi editori presenti hanno potuto applicare sconti favolosi, che hanno attratto le migliaia di visitatori. Prevalentemente sono stati risucchiati da questa calamita commerciale gli studenti muniti di buono da quindici euro regalato dalla Regione Piemonte. L’esito è stato, ancora una volta, un vantaggio netto e indiscutibile per i marchi editoriali che meno ne hanno bisogno. Gli stessi che dettano legge nel finto mercato della distribuzione editoriale.
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Per il grosso dei visitatori, gli stand dei piccoli, posti prevalentemente intorno ai grandi nello spazio 2 e nello spazio 3, sono stati oggetto di curiosità, ma come volumi di vendite non pochi standisti sono a malapena riusciti a recuperare le spese (per giunta dimezzate, quest’anno, per via della concorrenza con Milano).
Quando i ragazzi, affascinati per forza di cose dai grandi marchi, si proiettano sull’editoria come dei meri consumatori acritici, allora il segnale del declino è dato, è certificato. E non si venga a dire che non è così, perché i lettori critici non sono più il grosso del mercato. A Milano si è avuto almeno il pudore di raccontare una fiera, un mercato, una libreria sbilanciata. A Torino lo si è fatto, ma non lo si è dichiarato. Perché, viene da chiedersi? Perché non conviene dichiarare fallito l’esperimento della finta indipendenza?
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I visitatori habitué non hanno trovato grandi differenze tra il passato e il presente, salvo l’assenza visibile del gruppo Mondazzoli. E se il gruppo Mondadori fosse stato presente, chi ne avrebbe fatto le spese ancora di più sarebbero stati, ovviamente, gli indipendenti. È stata dunque una fiera riuscita a metà. Riuscita sulla quantità editoriale, meno sulla qualità delle vendite. Come salone, difficile dirlo, vista l’esiguità qualitativa dell’offerta culturale nazionale in genere, così grigia e autocelebrativa. Niente di eccezionale, insomma, nessun picco, molta autoreferenzialità salottiera, con autori noti, ormai attempati quanto i loro grotteschi seguaci. Per fortuna c’erano fumetti, fumettisti, libri per l’infanzia e decoratori a portare una ventata d’aria nuova. Viene allora da domandarsi se non è il caso di pensare ad un salone soltanto indipendente, meno costoso, che racconti il Paese. Di un salone e non di una fiera, come è stato, purtroppo e ancora, a Torino.
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