TO Cult – Al Caffè dei Giornalisti: la presentazione dell’Atlante delle Guerre
Palazzo Saluzzo Paesana
È un venerdì di febbraio più caldo rispetto a quanto siamo abituati qui a Torino; abbandonati i piumini, qualcuno incomincia a sentire l’aria della primavera. Palazzo Saluzzo Paesana è in via della Consolata, centro città che guarda al Quadrilatero Romano, quartiere di cibo e movida. È un palazzo austero e regale, sabaudo per tutto ciò che l’aggettivo evoca nelle altre parti d’Italia. Il direttore Mario Calabresi la prima cosa che dice si complimenta per la scelta del luogo.
La presentazione di un libro non qualunque
È stato scelto il Caffè dei Giornalisti per la presentazione dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, che è esattamente ciò che il nome dice: un libro che scandaglia il mondo intrecciando elemento geografico (“atlante”) e politico (nel fallimento del suo aspetto di mediazione: “guerre”). Il libro è nato anni fa – questa è l’edizione numero cinque – da un’idea del giornalista RAI Raffaele Crocco per colmare una lacuna evidente: censire annualmente – e «recensire» – le guerre nel mondo.
Mario Calabresi (e un po’ di Renzi)
L’Atlante ha stretto una collaborazione con «La Stampa»: il direttore Calabresi la seconda cosa che dice è che non è vero che, come si pensa, «gli Esteri non tirano». Ricorda che il numero più venduto della sua direzione è stato uno speciale dedicato all’Africa. Ricorda l’apprensione con cui moltissimi hanno vissuto il sequestro di Domenico Quirico e si sono stretti idealmente al giornale. Ricorda quanto siano fondamentali le coperture dei conflitti da parte dei media. Quanto sia utile un atlante così, anche per i professionisti che devono coprire i conflitti. «E adesso scusate, devo andare a vedere se Renzi ha fatto il governo» è l’ultima cosa che dice. La risposta è stata, notifiche su smartphone mezz’ora dopo, «Sì, abbiamo un governo». Erano i minuti in cui il premier twittava dal Quirinale: «Arrivo! Arrivo! #lavoltabuona».
I combattimenti ci sono, anche se è difficile documentarli
Il direttore Crocco racconta gli sforzi per fare questo Atlante: le idee si devono realizzare, gli amici si devono coinvolgere, e anche se sono amici la gente che lavora va pagata: sebbene parliamo di giornalisti (1). In collegamento via Skype con il Sudan c’è il fotoreporter Fabio Bucciarielli, che dice una cosa semplice che probabilmente sfugge a chi non si occupa di questi temi né si interessa di immaginare: le guerre, in Africa, sono estese. Significa che non si vedono, dati gli spazi in cui tutto accade. Per dire: a Kiev è tutto in una piazza, o in un ambiente raccolto: documentabile facilmente e, quindi, visibile. Immaginate invece le radure africane, gli altipiani e le distanze: combattimenti che lasciano centinaia di vittime in un luogo, magari, e poi via verso altrove. Invisibili.
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Hutu o Tutsi?
In Africa ci è andato più volte Luciano Scalettari, giornalista di «Famiglia Cristiana». Mentre racconta la sua esperienza di inviato di guerra fa uno di quei giochini che fanno sentire tanto piccoli, come bambini beccàti a nuotare nella marmellata. Dice: «Del Rwanda, ad esempio, il dilemma dopo vent’anni è: chi è già che ha vinto?». Hutu o Tutsi? Sì, divento piccolo e storco la bocca: delle cose lontane ci ricordiamo davvero per il tempo del fuoco di un pezzo di carta.
Oddio, sto diventando retorico: è che si sta parlando del racconto di guerre di cui si dice poco, sono trentasei le guerre adesso nel mondo (l’avreste detto?), guerre che al massimo finiscono ogni tanto nella coda di un telegiornale o di un quotidiano usato il giorno successivo a ricoprir la mezza dozzina di uova… Hutu e Tutsi sembrava vent’anni fa quasi un gioco di parole, eppure…c’è stata gente, tanta gente, uccisa a colpi di ascia, mutilata. Gente vera.
Gli ospedali: parliamone. Anzi: vediamoli
Come quella che si vede nel documentario di Alessandro Rocca, che filma un medico mentre lavora e altri africani mentre vivono. Gli ospedali abbozzati. Le mosche sulle labbra dei bambini. Il dottore, che è italiano, prende una cartina e dice: «Tra qui e qui non ci sono ospedali. Il più vicino è qui, e un altro è qui. E gli scontri sono qui e qui». Stupore, certo: sta parlando di centinaia e centinaia di chilometri da fare in auto su strade senza un’anima che, si vedono le immagini, sono mezzi disastri. Di feriti che probabilmente moriranno.
Perché siamo qui
Siamo qui perché la presentazione l’ha organizzata il Caffè dei Giornalisti, «associazione culturale che nasce a Torino nel 2012come luogo d’incontro per raccogliere, confrontare e promuovere esperienze di giornalisti in Italia e nel mondo, con particolare attenzione a chi persegue l'obiettivo di un'informazione libera, specialmente in contesti ostili e svantaggiati. Nasce sulla scia dell'esperienza della Maison des journalistes, che a Parigi accoglie e accompagna i giornalisti esiliati, costretti a lasciare il proprio paese per aver voluto praticare la libera informazione». Come dire: quasi un atto dovuto, che l’Atlante delle guerre venga presentato da questa associazione.
Il catering
Dell’evento si è parlato sui giornali cittadini, su internet, sui social. Gente ce n’è parecchia: due sale piene, abbondanti. A margine della promozione è stato anche scritto: «A seguire, rinfresco». Ed ecco l’imbucato.
Cravatta che non c’entra niente con la camicia – due disordini creano un disordine più che proporzionale –, grassoccio, pasciuto, l’imbucato si riconosce per tre motivi: a) è solo; b) tiene lo sguardo basso; c) quando lo alza, per non andare a sbattere contro una porta, se per caso ne incrocia un altro l’imbucato si affloscia, abbassa le spalle e si nasconde da se stesso.
Osservare l’imbucato è tuttavia divertentissimo: egli salta con noncuranza le file, divora cibo in un angolo, in piedi, e non finisce mai. Attende che i camerieri portino via l’ultima bottiglia e l’ultimo vassoio, soltanto a quel punto ha contezza che è davvero tutto finito.
Sono le 20.30, a Torino fa caldo, è un febbraio di temperature false, l’imbucato guarda l’ora, chissà che in qualche isolato vicino non ci sia un vernissage, che stia finendo proprio adesso, in tempo per il pusacafè.
1) frase ironica. pensiero dedicato ai giornalisti che non percepiscono stipendio.
***
Puntate precedenti
ToCult1: alla stazione Porta Nuova
ToCult2: la cultura libraria che trapassa in quella cinematografica
ToCult3: tra il pubblico del Premio Calvino
ToCult4: la Libreria Fontana
ToCult5: la Libreria L’angolo Manzoni
ToCult6: Portici di carta
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