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“The summer without men” di Siri Hustvedt

The summer without men Siri HustvedtThe summer without men recita il titolo del nuovo romanzo di Siri Hustvedt, pubblicato lo scorso aprile dalla Picador. Si tratta di un titolo che immediatamente sottintende una mancanza, una lacuna emozionale e sottolinea il tema di un’assenza. D’altronde, l’autrice non tarda a esplicitare i temi chiave attorno a cui ruota l’intreccio del romanzo. Sono difatti dirette, fulminee ed istantanee le righe introduttive del primo capitolo, che debuttano in medias res, evidenziando il carattere intimistico, personale della scrittura dell’autrice: «Sometime after he said the word pause – recitano le parole della prima pagina – I went mad and landed in a hospital. He did not say I don’t ever want to see you again or it’s over, but after thirty years of marriage pause was enough to turn me into a lunatic whose thoughts burst, ricocheted, and careened into one another like popcorn kernels in a microwave bag». (Qualche tempo dopo che aveva detto la parola pausa, sono impazzita e sono finita all’ospedale. Non ha detto Non voglio mai più vederti oppure è finita, ma dopo trent’anni di matrimonio pausa era più che sufficiente per trasformarmi in una lunatica i cui pensieri bruciavano, rimbalzavano, e sbandavano l’uno sull’altro come chicchi di popcorn in una busta per il forno a microonde).
Hustvedt non attende a svelare il fulcro della narrazione e non sente il bisogno di soffermarsi su indugi stilistici. Mancano descrizioni ambientali e/o paesaggistiche e la realtà narrativa si delinea con tratti accennati, abbozzati. L’autrice offre un incipit folgorante. Non solo. Riassume brevemente e in pochissime righe i tratti essenziali del personaggio intorno al quale si regge la storia: una donna di mezza età lasciata dal marito dopo trent’anni di matrimonio. Dietro questa sintetica introduzione si cela un fantasma femminile comune e dai contorni stereotipati, affrontato, però, con una grande maturità di scrittura e con una capacità narrativa ormai appurata nella scrittrice americana. Benché difatti il nome di Siri Hustvedt sia troppo spesso affiancato a quello del marito, Paul Auster, la scrittrice ha dato prova di un’abilità prosastica e poetica non indifferente, i cui caratteri peculiari erano già evidenti nei suoi primi romanzi.
The Blindfold prima, l’Enchantement of Lily Dahl ed in seguito il suo grande successo What I loved, tradotto in italiano e pubblicato da Einaudi con il titolo Quello che ho amato, sono tutte opere che hanno messo in luce una maestria narrativa che gioca sul dato immediato, che evita digressioni, sviluppandosi  con un ritmo stretto, serrato. Emerge la tendenza ad una scrittura svelta, snella, priva di ridondanze stilistiche e di arguzie superflue. In tal modo, la narrazione scorre esile attraverso i meandri di un apparente autobiografismo. Apparente perché si tratta di finzione e, soprattutto, poiché crediamo che l’interesse critico nei confronti della letteratura non risieda nel far gossip sulla vita dell’autore (a seguito della pubblicazione, numerosi sono stati i giornali che hanno letto il romanzo della Hustvedt “tra le righe”, mettendo in dubbio il legame con Auster). L’autobiografismo, al contrario, è proprio del moto narrativo, intrinseco allo sviluppo della scrittura che si dipana in prima persona. Il lettore è sommerso dalla narrazione, che si manifesta sotto i tratti di una preponderante confidenzialità.
Mia, poetessa che, dopo aver subito un forte shock emozionale, trascorre l’estate nel villaggio della madre e si abbandona a riflessioni che toccano la sessualità femminile e quella maschile, le divergenze e le similitudini dei due universi. Benché con indole da “femminista”, la sua analisi è critica e argomentata. La voce narrante lascia libero sfogo alle perplessità legate all’immagine della donna. La storia della psicanalisi è riassunta con ironia, soprattutto quando si parla d’isteria femminile. Anche il piacere è messo in discussione, particolarmente quando  Mia constata con stupore le diverse teorie che vedono nell’orgasmo della donna un’anomalia fisica propria del genere umano e di poche altre specie, il mondo animale femminile essendone privo. Oltre alle riflessioni incentrate sul rapporto uomo/donna, seguono le considerazioni sulla poetica, con predilezione per una lirica libera, scevra di regole, autonoma e indipendente: «Within minutes, the book club was over. And it had ended before I could say that there is no human subject outside the purview of literature. No immersion in the history of philosophy is needed for me to insist that there are NO RULES in art, and there is no ground under the feet of the Nitwits and Buffoons who think that there are rules and laws and forbidden territories, and no reason for hierarchy that declares “broad” superior to “narrow” or “masculine” more desiderable than “feminine”». (In pochi minuti, il circolo del libro si sarebbe sciolto. E sarebbe finito prima che io avessi potuto dire che non c’è soggetto umano al di fuori dell’ambito letterario. Non è necessaria nessuna immersione nella storia della filosofia per affermare che NON CI SONO REGOLE nell’arte, e non c’è  nessun fondamento per i Nitwit e i Buffoon che pensano che ci siano regole e leggi e territori proibiti, e non c’è ragione perché una gerarchia dichiari il «tollerante» superiore al «rigoroso» oppure che il «mascolino» sia preferibile al «femminino»).
Sebbene il romanzo ruoti attorno a dei temi – quello dell’assenza, della separazione e della crisi coniugale con adulterio annesso – che facilmente potrebbero degenerare in contorni languidi e vagamente idilliaci, l’autrice riesce sempre a mantenere un certo distacco. Siri Hustvedt mette in scena una voce narrante che – benché si esprima in prima persona – lascia intuire un forte senso critico. L’autobiografismo si plasma in tal modo di un accentuato humor tendente al noir, oltre che da un cinismo che aumenta la carica narrativa. Non ci rimane quindi che attendere la traduzione del testo in italiano, nella speranza che non tardi ad arrivare.

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