The Paris Review: 60 anni di bellezza culturale
Mi perdoneranno i lettori se citerò anche una vicenda privata, la mia è una manifestazione d’affetto.
Era l’estate del 1989 e ogni anno, nel mese di luglio, vedevo due ragazzi (uno della mia età, un altro di pochi anni più grande) sul giardino di una casa non lontana dalla mia. Sapevo che erano di Chicago, sapevo che erano fratelli e che avevano perso entrambi i genitori, infatti erano i nonni – italiani emigrati negli USA – a portarli in Italia. Un giorno, con il pallone a farmi compagnia, sono passato di fronte alla loro abitazione, ho salutato e ho chiesto se volessero giocare assieme; capii subito che non parlavano in italiano e allora fiero del mio sgangherato inglese, provai a dirlo nella loro lingua. Ci fu un’intesa, soprattutto a gesti, e da quel momento trascorrevamo ogni pomeriggio insieme.
Il più grande dei due mi nominò la rivista The Paris Review, io non sapevo neppure di che cosa stesse parlando, avevo soltanto intuito che si trattava di letteratura. Me ne parlò con grande entusiasmo (ricordo quante volte gli dicevo “Speak slowly please”, cui facevo seguire un sorriso; non erano poche le volte in cui non capivo nulla di ciò che diceva, ma mi illudevo di avere inteso il concetto). Seduti nel suo giardino mi mostrò un paio di numeri che aveva acquistato negli Stati Uniti e quella estate mi fece una promessa che si riassumeva in un concetto semplice: il prossimo anno ti porterò i numeri che nel frattempo usciranno, te li presterò per dodici mesi e poi tu me li ritornerai l’anno successivo. Un patto amicale che mi permise di leggere la rivista per alcuni anni, fino a quando i due fratelli mi comunicarono che non sarebbero più venuti in Italia durante l’estate.
Una vicenda personale che mi ha permesso di conoscere The Paris Review prima di leggere i libri degli autori che poi avrei trovato sulla mia strada. E fu una fortuna. Ricordo le sere durante l’autunno e l’inverno, con il dizionario vicino, a scrutare fra i percorsi letterari di nomi celebri: mi ricordo una splendida intervista ad Harold Bloom o quella a Mario Vargas Llosa, ricordo l’odore della rivista, ricordo la grafica sempre intrigante, ricordo la sensazione di estrema gioia dopo avere letto le poesie di Marilyn Hacker o di Charles Simić. Intanto il mio inglese migliorava di anno in anno e le conversazioni con i due fratelli diventavano un appuntamento che mi metteva in uno stato di febbrile attesa già in primavera.
Vi ho raccontato in breve questa esperienza personale perché si festeggiano nel 2013 i 60 anni dalla fondazione di The Paris Review. Pochi giorni fa è stato pubblicato il numero 204, come annunciato nel blog della rivista.
Se qualcuno avesse la fortuna di trovarsi a New York il 9 aprile 2013, ci sarà lo Spring Revel, appuntamento letterario ludico che attira scrittori e lettori ogni anno, anche per sostenere economicamente The Paris Review.
Quest’anno sono pure i dieci anni dalla morte di George Plimpton, colui che la fondò – assieme a Harold L. Humes, John P.C. Train, Thomas H. Guinzburg, William Pène du Bois e Peter Matthiessen –, diventando da subito caporedattore.
Un unico grande dispiacere, non avere mai trovato, fra le tante riviste letterarie delle librerie italiane, un numero di The Paris Review. Ma forse sono stato solo sfortunato.
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