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Sylvia Plath e un viaggio nei suoi “Diari”

Sylvia Plath e un viaggio nei suoi “Diari”Sulla breve vita di Sylvia Plath si apre da subito il sentiero dei Diari, l’opera che forse più della sua poesia è imbevuta di sincero, complesso tormento.

La poetessa statunitense, ancora bambina, esercitava la consuetudine di esplorare il proprio io e quello che leggiamo in questa sorta di autobiografia – per scelta dei curatori ridotta a circa un terzo di tutto il materiale − è la testimonianza di dodici dei suoi anni più produttivi, dal 1950 al 1962, pubblicati con il titolo originale The Jornals of Sylvia Plath soltanto nel 1982; in Italia l’opera si diffonde per Adelphi in prima edizione nel 2004 e in seconda nel 2007.

La voce che emana da queste pagine sembra provenire da un pozzo, il più profondo di tutti, quello della memoria, dove le immagini di una vita si fondono con la bellezza delle riflessioni su di essa. Scopriamo dunque una donna che si cerca dentro la scrittura e che alla fine si trova, poetessa audace, tagliente e preziosa.

 

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Della sensibilità poetica di Sylvia Plath dissotterriamo, da questi diari, soltanto il germe delle idee da cui sarebbero nati i versi di Ariel. Sono idee che ritroviamo sparse e autentiche come la gioia e il dolore da lei sperimentati negli anni:

«Luglio 1950. Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per avere lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare. Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di dormire e il mattino dopo, all’alba, lo aspettano altre fragole da piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra. In momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più…».

 

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Trascorrono tre anni, Sylvia cresce e accresce il proprio desiderio di guardarsi dentro per esplorare, «dragare il mare silenzioso, inerte, potentemente ricco e putrido» del suo «inconscio». La scrittrice vuole lavorare su se stessa per comporre il mosaico della propria infanzia, come lei stessa annota sui diari: «esercitarmi a catturare sensazioni ed esperienze nell’informe subbuglio della memoria e sbatterle in bianco e nero sulla macchina da scrivere…».

Sylvia Plath e un viaggio nei suoi “Diari”

Un percorso introspettivo che orienta, tra l’altro, l’immaginario erotico della Plath dentro un gioco puramente mentale di desideri inappagati. La scrittrice infatti frequenta, in questi anni, lo Smith College, si guarda intorno, conosce studenti, instaura amicizie, riflette sull’effetto disorientante di un eventuale legame sentimentale. E mentre pensa, scrive i suoi diari e ritornando su alcuni di quei pensieri, qualcosa, nella mente, inizia a vacillare:

«14 luglio. Va bene, hai raggiunto il limite – oggi, dopo due ore di sonno in due notti, hai provato a sfuggire del tutto alle responsabilità: ti sei guardata intorno e hai visto che tutti erano sposati o indaffarati, felici, ragionevoli e creativi e hai avuto paura, ti sei sentita male, apatica e, peggio ancora, incapace di reagire. Hai avuto la visione di te con la camicia di forza, un bel salasso per la famiglia, che davi il colpo di grazia a tua madre e abbattevi l’edificio di amore e rispetto costruito anno dopo anno nei cuori degli altri. […] Paura grande e brutta e piagnucolosa. Paura di non riuscire a livello intellettuale e accademico: il colpo più duro alle certezze. Paura di non farcela a tenere il ritmo veloce e furioso dei premi vinti in questi ultimi anni – di una qualunque vita creativa. Desiderio perverso di ritirarmi nell’apatia. […]

Leggi un racconto: Pensa. Ne sei capace…Credi in qualche forza benefica al di fuori del tuo io limitato. Signore, signore, signore: dove sei? …».

 

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Il 24 agosto dello stesso anno, il 1953, Sylvia tenta il suicidio, viene ricoverata e “curata” con terapie di elettroshock e insulina ma la ripresa effettiva si constata dopo l’intervento di una terapeuta straordinaria che la segue anche nel periodo successivo alle dimissioni dall’ospedale e che svolge un ruolo fondamentale nel breve resto della sua vita.

Dopo aver conseguito il diploma allo Smith College la poetessa si trasferisce a Cambridge e nel gennaio del 1956 intrattiene una corrispondenza significativa con Richard Sassoon, suo ex ragazzo in soggiorno a Parigi. Un brano tratto da queste lettere ci conduce al punto più alto della scrittura che confessa una lenta presa di coscienza, gravida ancora di paure rivelatrici di sentimenti di morte. Il fuoco della scrittrice è tutto dentro questa prosa lucida e straziata:

«[…] E ti hanno già condannata perché sei matta. Proprio così. Perché la paura è già lì, da molto tempo. La paura che tutti i bordi e le forme e i colori del mondo reale, ricostruiti con tanta fatica con tanto vero amore, possano svanire in un attimo di dubbio e “spegnersi di colpo” come farebbe la luna nella poesia di Blake. […] Ero morta e sono resuscitata e mi aggrappo al valore puramente sensoriale del suicidio, dell’esserci andata proprio vicino, di uscire dalla tomba con le cicatrici e con il segno deturpante sulla guancia (sarà un’impressione?)… E io mi identifico troppo con quello che leggo, che scrivo. Sono Nina di Strano interludio; voglio avere marito, amante, padre e figlio, tutti in una volta. […] Mi immagino Richard qui, con me, mentre mi ingrosso per via di suo figlio. […] Voglio gridare a Richard, a tutti gli amici a casa, di venire a salvarmi. Dalla mia insicurezza, che devo combattere da sola. Finendo il prossimo anno qui, godendomi l’ansia di leggere e pensare, mentre alle mie spalle c’è sempre il tic tac che mi deride: Una Vita Sta Passando. La Mia Vita».

 

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Sylvia Plath e un viaggio nei suoi “Diari”

E da quei giorni in avanti la sensazione di sprecare la propria giovinezza «su un terreno sterile» solca, poco a poco, la mente della scrittrice che scivola in una profonda depressione. Il dialogo tra la “Scrittura” e la “Vita” è l’unico stimolo positivo; perché tutto torni ad essere “solido” occorre credere in sé con determinazione: «Quello che mi spaventa di più, credo, è la morte dell’immaginazione. Quando il cielo lassù è solo rosa e i tetti sono solo neri: quella mente fotografica che paradossalmente dice la verità, ma una verità senza valore, sul mondo. Io desidero quello spirito di sintesi, quella forza plasmante che germoglia, prolifica, e crea mondi suoi con più inventiva di Dio… Bene, dopo questa tesina su Racine, questo purgatorio su Ronsard, questo Sofocle, scriverò: lettere, prosa e poesia.».

 

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Quel «deserto dietro i suoi occhi» si allontana, di tanto in tanto, grazie a eventi significativi per l’anima e le aspirazioni della poetessa statunitense. Uno di questi è l’incontro stimolante con Ted Hughes, − poeta acuto e incantevole – che diverrà marito e padre dei suoi due figli. Sono quelli gli anni in cui Plath visita la Spagna, Parigi e la Germania, insegna inglese allo Smith College, scrive poesie e si trasferisce con Ted a Londra dove, nell’aprile del 1960, dà alla luce la figlia Frieda Rebecca. Il Colosso, la prima raccolta, uscirà a ottobre dello stesso anno, a distanza di qualche mese dalla seconda, Campana di vetro,sulla quale la scrittrice aveva lavorato rileggendo i primi diari. Nicholas, il secondogenito, nascerà a gennaio del 1962: tredici mesi dopo Sylvia Plath muore suicida a Londra.

 

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Nei Diari pubblicati a cura di Ted Hughes e di Frances McCullough, nulla appartenente a questo ultimo periodo viene documentato. È noto però che il 16 ottobre 1962 la poetessa scriveva alla madre: «Sono una scrittrice geniale; me lo sento. Sto scrivendo le poesie più belle di tutta la mia vita; mi renderanno famosa…». Ariel, è tra quelle.

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