Susanna Tamaro: 10.000 ore di scrittura per iniziare
Entrare nel Teatro Verdi di Pordenone è come entrare in un immenso zuccotto bianco che in realtà è una nave spaziale che all’interno sembra essere stata costruita con la colonna vertebrale di un pesce d’acciaio e vetro. Odora di ciliegio e plastica nuova, sul palcoscenico un divano e una poltrona, anch’essi bianchi, la sala è invasa da persone, per la maggior parte donne che stringono un libro in grembo con entrambe le mani, con forza o lo accarezzano, lievemente e costantemente, come se fosse un gatto pronto a fuggire non appena gli sarà dato abbastanza spazio. Anche la copertina del libro è bianca, con due bambini al centro che camminano nel nulla.
Sono tutti qui per ascoltare una scrittrice fra le più restie a parlare in pubblico o a essere intervistata (anche noi ci abbiamo provato senza successo, per ora), sono tutti qui per ascoltare Susanna Tamaro.
A intervistarla Alessandro Mezzena Lona, giornalista de «Il Piccolo» di Trieste, un signore alto e elegante, vestito inspiegabilmente di nero, perché il nero sembra assurdo in tutto quel candore. S’inizia con le domande di rito: cosa significa scrivere per la Tamaro, perché ha sentito la necessità di parlare di sé con il suo ultimo libro Ogni angelo è tremendo (Bompiani, 2013), cosa ha voluto dire il successo di Va’ dove ti porta il cuore. All’inizio Susanna Tamaro è stringata e controllata, si vede che non è a suo agio a parlare di sé in pubblico, si vede che la sente come un’intrusione nella propria sfera personale. Poi qualcosa si spezza. Il silos di cristallo Tamaro mostra le prime crepe quando si parla di lavoro. Quando ci dice che «la scrittura è squartamento […] lo scrittore è un minatore che cerca i suoi gioielli che sono dentro le persone che lo circondano, dentro ogni essere vivente che lo circonda». A quel punto la Tamaro si ferma e aspetta, in silenzio, tanto che Mezzena non sa se temporeggiare o passare alla domanda successiva, ricordando forse quello che accadeva con Sciascia e le sue famigerate pause di riflessione, che hanno messo in difficoltà più di un giornalista.
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I secondi si lasciano cadere davanti alle polacchine scamosciate della Tamaro, per poi salire sul suo esile corpo, fino alla sua camicia bianca. Si sistemano accanto alle coccinelle stampate sulle maniche e aspettano. Il silos si rompe e Susanna Tamaro inizia davvero a parlare. Lo fa con un aneddoto che è struttura stessa della sua idea di scrittura e di vita. Ci dice che durante le selezioni di una famosa orchestra sinfonica tedesca si sono resi conto che nessuno che avesse meno di 10.000 ore di esercizio con il proprio strumento riusciva a essere ammesso. Ecco, per la scrittura secondo Susanna Tamaro 10.000 ore sono solo un inizio. Poi servirà sintesi, immaginazione e assoluta precisione nella scelta delle parole. La scrittura dovrebbe nascere sempre dalla poesia e fornire una verità che illumini chi la legge, anche se dolorosa, e poi certo, c’è lo stupore. Lo stupore è la dote più importante per uno scrittore secondo l’autrice di Ogni angelo è tremendo, e senza di esso non c’è più vita: «Uno scrittore dovrebbe sempre iniziare la sua giornata chiedendosi: Cosa scoprirò oggi? Poi dovrebbe uscire all’aria aperta e ascoltare la materia che ci parla dello spirito». Il silos Tamaro non è mai esistito, non riusciamo più a vederlo, a sentirlo. Le signore sedute vicino a me hanno smesso di accarezzare il loro libro, libero ora di fuggire e di ritornare con nuove storie e nuove sensazioni assorbite dalla materia intorno a lui. E ora Susanna Tamaro parla, senza più pause, senza più paura di noi, noi non esistiamo più, lei è in mezzo ad un prato e cammina lentamente, guardando a terra, dalla sua camicia sono fuggite tutte le coccinelle con in groppa nuovi secondi da creare.
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