Sull'ignoranza degli intellettuali
Articolo di Massimiliano Parente, autore di Contronatura (Bompiani, 2008), L'inumano (Mondadori, 2012) e Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler (Mondadori, 2014).
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Ogni tanto me lo sento dire perfino io: «Sei un intellettuale?». Manco per idea, come ti permetti? Stando all’etimologia, «intellettuale» significa colui che usa l’intelletto. Quindi gli altri non lo usano. O non lo usano quanto un intellettuale. Il quale avrà una corteccia prefrontale particolarmente sviluppata.
Bene, detto questo, basta fare mente locale, sono sicuramente intellettuali: Gianni Vattimo, Umberto Eco, Massimo Cacciari, Roberto Calasso, e tanti altri, quasi tutti, perfino molti cardinali e papi. Tra i grandi intellettuali del secolo scorso: Moravia, Pasolini, Vittorini, Pavese, Bobbio, Benedetto Croce e il suo idealismo. Tuttavia, attenzione: non direste mai che Albert Einstein era un intellettuale. Tantomeno Alan Turing o Stephen Hawking. Cioè Einstein usava l’intelletto meno di Pasolini?
Io aggiornerei la definizione: intellettuale è colui che non sa in quale mondo viviamo. Infatti il grande imbroglio ha le sue origini alla fine dell’Ottocento, con lo strappo della cultura umanistica da quella scientifica. Fino alla fine del Settecento teologia e scienza erano tutt’uno, mentre da un certo punto in poi la realtà fu completamente da riscrivere. Non la realtà sociale dei realisti ma realtà assoluta, umana, ontologica. Un forte strappo avvenne nel 1859, con la pubblicazione de L’origine delle specie, di Charles Darwin. Anziché prendere la palla biologica al balzo per ridefinire il concetto di umanesimo, e l’uomo come unico animale terrestre arrivato a comprendere la vita, gli intelligentoni umanisti cosa fanno? Si tengono Apollo e la palla di pelle di pollo e diventano struzzi mettendo la testa pensierosa sotto la sabbia. Non vogliono sapere. Tanto sui giornali ci scrivono loro, sono sempre giornalisti e scrittori, editorialisti e scrittori, politici e scrittori, opinionisti e scrittori, insomma intellettuali.
Nella rivoluzione copernicana ci si poteva stare ancora, bastava cambiare poche cose, sebbene anche lì ci sia voluto del tempo, e Galileo fu costretto a abiurare con i metodi che sappiamo. Ma con l’evoluzionismo, la relatività generale, la meccanica quantistica, come la mettiamo? I letterati avrebbero dovuto rimettersi a studiare e erano rimasti qualche secolo indietro. Il massimo dell’up to date: Linneo, Cartesio, l’orologio del reverendo Paley. I quali però erano a loro modo anche scienziati. Perfino Kant si interrogava sull’universo, e fu il primo a dare un parametro giusto del numero di stelle della Via Lattea.
Ecco quindi che i letterati si autodefiniscono «intellettuali», circoscrivendo il campo dell’intellettualità: filosofia, letteratura, teologia. Al massimo arrivano a Spinoza e Kant, e in seguito includono la psicologia, ma solo perché prendono Freud per un letterato, quale in effetti è, mentre rifiutano completamente psichiatria e neuroscienze. In sostanza rinunciano ad avere un’epistemologia moderna, ossia una teoria della conoscenza agganciata a un concetto di reale non metafisico.
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Un’altra idea geniale viene ad Antonio Gramsci, altro punto di riferimento teorico degli intellettuali: gli intellettuali devono essere organici. Non nel senso che contengono carbonio, quello lo abbiamo tutti. Ma organici al partito, all’ideologia rivoluzionaria. Intellettuali di sinistra, ai quali si contrappongono gli intellettuali di destra, che nessuno ha mai capito chi siano.
Al riguardo, esattamente un secolo dopo la pubblicazione dell’opera fondamentale di Darwin, nel 1959, Charles Percy Snow mise il dito nella piaga con un pamphlet mirato al cuore della questione, intitolato appunto Le due culture. «Molte volte» scrive Snow, «mi sono trovato presente a riunioni di persone reputate di elevata cultura, secondo i criteri della cultura tradizionale, che si sono precipitate a dichiarare di non poter credere che gli scienziati fossero così privi di cultura letteraria. Un paio di volte mi sono irritato e ho chiesto alla compagnia quanti di loro se la sentivano di spiegare che cos’è la seconda legge della termodinamica. La risposta era fredda, e era altresì negativa. Eppure chiedevo qualcosa che è pressappoco l’equivalente scientifico di “Avete mai letto un’opera di Shakespeare?”». Tra l’altro oggi è più facile che uno scienziato abbia letto Shakespeare che un letterato due righe di Niels Bohr.
Così è diventato automatico il disprezzo umanistico (e popolare) della cultura scientifica. Si esce dalle scuole senza sapere che la vita sulla Terra ha tre miliardi e mezzo di anni e l’uomo è un primate vecchio appena di duecentomila anni. Si ascolta Benigni che legge Dante come se raccontasse davvero qualcosa del mondo. Non si ha neppure idea di cosa significhi DNA, tranne che serve a incolpare le persone di un delitto, né di cosa si cerchi con gli acceleratori di particelle, né della disputa fondamentale della fisica moderna: la ricerca di una teoria che unifichi meccanica quantistica e relatività generale. Non sono cose importanti per un intellettuale.
Tuttavia se dobbiamo avere un parere autorevole sul nucleare o sulla fecondazione assistita o sul modello familiare riguardo l’adozione di figli da parte delle coppie omosessuali, chiamiamo «un intellettuale»: un particolare tipo di ignorante spocchioso che si fa perfino pagare per spiegare agli altri quello che non sa.
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