Sui sindaci africani l’ennesimo sbaglio di Saviano
Interessante l’ultima uscita di Roberto Saviano sui sindaci africani. Interessante ma piuttosto sterile sul piano dell’avanzamento del dibattito nazionale sui diritti degli stranieri. Tanto è vero che, lungi dall’aprire una discussione sul diritto di voto, l’ennesima sparata mediatica ha ridato fiato alle trombe delle destre.
Ora, chi conosce e pratica i processi democratici sa bene che essi vanno costruiti facendo i conti con i numeri e la qualità degli stessi, più che con i desideri dei singoli. Affinché l’Italia possa arrivare ad avere sindaci di origine o provenienza africana, è necessario lavorare duramente affinché cambi la normativa sul diritto di voto, sulla godibilità dei diritti politici, sulla cittadinanza per le seconde generazioni. O pensiamo davvero che si possa così, ex abrupto, derogare alle regole della democrazia? Se lo pensiamo ci poniamo anche noi fuori del dibattito democratico, e aderiamo a forme individualistiche di populismo televisivo, come tendono a fare tanto i razzisti quanto alcuni pensatori poco avvezzi alle regole del gioco democratico.
Altro elemento di debolezza dell’uscita di Saviano è il confronto con i numeri. Sul piano demografico, la seconda generazione e la presenza straniera in Italia hanno marchio prevalentemente est europeo e nordafricano: sarebbe quindi stato più aderente alla realtà aver detto di sognare sindaci magrebini o arabi o albanesi o rumeni. La demografia non è materia difficile da possedere anche per chi non viene da studi statistici, soprattutto se dal terreno del desiderio (pensar per desideri) si passa a ogni piè sospinto nel terreno della politica e della democrazia.
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Ultimo aspetto, il più debole, quello meramente politico. Sollevare oziose polemiche sulla pelle dei destinatari dei diritti (come tende a fare spesso la Boldrini) alimenta oltremodo la reazione neofascista, e questo lo sappiamo tutti noi che con i media e con la scrittura ci lavoriamo responsabilmente ogni giorno.
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Uno scrittore può darsi un ruolo da intellettuale solo se, come fanno molti altri, si mette in gioco davvero costruendo consenso intorno a una legge per il diritto di cittadinanza, a una normativa che cominci a stimolare un dialogo laico e non teologico tra le fedi, a una che abroghi la Bossi-Fini. È chiedere troppo? Al contrario, è domandare il minimo sindacale. È semplicemente fare quello che figure come Camus e Genet hanno fatto quando i tempi e i toni erano ben più duri di quelli attuali. Quando il governo del dibattito pubblico passava attraverso i libri e lo studio, non dagli studi televisivi e dai talk show.
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