“Strade bianche” di Enrico Remmert
Se mi spieghi. . . Non vale!
Il romanzo di viaggio pare sempre una buona soluzione. È così che si scansa l’ostacolo di inscenare l’introspezione di un percorso formativo: sarà sufficiente far coincidere il viaggio interiore dei personaggi con le loro tappe “fisiche”. È così che si calibra la sfida di costruire un intreccio lineare ma vivace, vario ma dettagliato: la narrazione in movimento fornisce, di per sé, un fertile canovaccio.
Il gettonato scenario on the road regala strumenti immediati per mettersi alla ricerca di nodi da sciogliere. Strade Bianche, di Enrico Remmert, offre un viaggio di questo tipo. Anzi, sono ben tre le avventure interiori; percorsi paralleli e, a tratti, perpendicolari di tre amici alla soglia dei trent’anni: una coppia sul punto di lasciarsi e un’amica comune che coglie l'occasione per far tabula rasa.
Il pretesto lo dà Vittorio, violoncellista emotivo, accettando un posto da sostituto orchestrale a Bari. Torino-Bari: 1.000 km, tre giorni sulla strada con una decina di tappe (volontarie e non).
Vittorio è in fuga dalla sua “compagna più fedele”, l’ansia esistenziale che riesce a mitigare solo con grandi bevute di birra, il suo “psicologo con la schiuma”. Francesca, la compagna decisamente “meno fedele” di Vittorio, lo accompagna in Puglia decisa a lasciarlo in viaggio e tornare dal collega veterinario con cui ha, da tempo, una relazione. Manu è al punto di non ritorno quando carica i due amici sulla Baronessa, così ha battezzato l’auto con i doppi comandi della scuola guida di periferia del padre, dove Manu spiega la cartellonistica stradale a diciasettenni “decerebrati”.
Nel cofano della vecchia Puntomarchiata Autoscuola Pilone (non fatevi ingannare dalla 500 rossa in copertina), tra i suoi averi stipati alla bene meglio, c’è una tela di Keith Haring sottratta al fidanzato Ivan Unz, il deejay manesco da cui sta fuggendo dopo l'ennesima accesa discussione.
Proprio la tela da 40 mila euro del writer statunitense, rubata come "risarcimento morale", offre a Remmert lo spunto per costruire gli episodi più divertenti del romanzo, i più riusciti. Le pagine migliori sono, senza dubbio, quelle che narrano i piccoli e grandi contrattempi incontrati lungo il tragitto: dalla visita al decaduto Duca piemontese con la sua villa senza mobili, fino alla trappola tesa al Rottweiler di Ivan nel parcheggio di una discoteca abruzzese. In sottofondo, il leitmotiv delle loro tasche vuote – i tre non possono prelevare con il bancomat e vengono derubati la prima notte da un vecchio affabulatore in una taverna sul lungomare di una Rimini fuori stagione – porterà Vittorio a esibirsi per racimolare qualche spicciolo. Sulla strada, a tu per tu con il suo violoncello, Vittorio riuscirà a vedersi per quello che è: un cane che si morde la coda, dilaniato dalla constatazione che le rasoiate che aprono le sue ferite sono anche i cicatrizzanti che sanno rimarginarle: la musica e Francesca.
Strade biancheè un diario di viaggio a tre voci. Remmert avverte nella prefazione: "Di ogni racconto ci sono tre versioni: la tua, la mia e la verità". I capitoli si alternano in ordine sparso fra la prima persona di Vittorio e Francesca e una specie di voce della coscienza di Manu. Il trio si muove fra statali e strade secondarie, attraversando posti ameni in cui vien spontaneo chiedersi: “Ma ci pensate nascere qui?”. Nebbie piemontesi, foschie delle marine romagnole, Marche, Abruzzo e entroterra pugliese, con le strade che, man mano, diventano sempre più bianche di neve dentro a un inverno che avanza con loro. Fiocchi che li accompagnano fino a posarsi delicatamente sull’atteso bivio della separazione. E lì Remment calca la mano con un eccesso di spiegazioni. Manu si fa portavoce di un didascalico bilancio di fine viaggio che spezza la magia. Contemplando la tela di Haring dal titolo Celebrate Ladders, invita il lettore a riconoscere i tre amici nei tre omini verdi che salgono le scale. Ecco, a questo avrei voluto arrivarci da sola, senza bisogno di essere imboccata.
Del resto, neanche la suspance è il lato forte di questo romanzo. Le ripetute nausee di Manu – telefonati indicatori del suo essere incinta di Ivan “il terribile” – vengono buttate qua e là fin dalle prime pagine. Tanto valeva scrivere “gravidanza” a caratteri cubitali. Anche il breve avvicinamento alcolico tra Manu e Vittorio, che si scopriranno solo amici, viene suggerito fin da quando salgono in auto. Di nuovo, la sensazione di essere presi per mano. Remmert accenna ad aprire un dibattito sull'aborto ma si resta a bocca asciutta.
Strade Biancheè un viaggio di sola andata. Eppure si assistono ad almeno due ritorni. Vittorio e Francesca, entrambi segnati da due, diversi, traumi infantili, verranno a capo del peso che la metabolizzazione di quegli episodi ha avuto nel definire il loro diventare adulti. Tornata dal mio viaggio di lettrice, invece, sono complessivamente soddisfatta. Nonostante la sua intermittente indottrinazione Remmert è, senza dubbio, un narratore che sa coinvolgere. Ho riso di gusto spiando i suoi personaggi dal finestrino, fra l'intimità del loro abitacolo che l'attenta costruzione dei dialoghi ha reso palpabile.
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