Storie di falsari e di ragazze nel Tempo. Intervista a Loredana Lipperini
Loredana Lipperini approda al romanzo dopo varie opere di saggistica (anche se, sotto pseudonimo, aveva pubblicato dei romanzi urban/dark fantasy). L’arrivo di Saturno (edito da Bompiani) è un curioso ibrido narrativo: una delle due storie principali è quella di Graziella De Palo, una giovane giornalista che scompare per sempre a Beirut il 2 settembre 1980. Con l’aiuto di un collega la ragazza stava indagando su una complessa vicenda, legata al traffico d’armi, che potrebbe collegarsi alle stragi italiane e al terrorismo in quegli anni violenti. Un caso che tocca da vicino l’autrice, ch’è stata molto amica di Graziella durante l’adolescenza. Un’altra storia, in prevalenza frutto d’invenzione, è quella di un pittore olandese che accetta di dipingere un Giudizio Universale in Italia, nelle Marche, proprio nei luoghi colpiti di recente dal terremoto.
Noi di Sul Romanzo l’abbiamo intervistata per approfondire alcuni aspetti del nuovo edito.
Prima di tutto sento di doverle dire che il romanzo mi è piaciuto molto: mi è piaciuto come l’ha costruito e per la scrittura, e non lo dico per piaggeria. Non è un libro da affrontare a cuor leggero (anche come mole: sono più di 400 pagine) eppure intriga e induce il lettore a riflettere. Leggendolo ho avuto la sensazione che per lei, come autrice, questo fosse un libro necessario. Mi dica se è d’accordo, quanto tempo ed energie le è costato e perché ha scelto, infine, di siglarlo col suo vero nome.
Non poteva che esser firmato col mio nome perché non ho più intenzione di servirmi dell’eteronimo che utilizzavo al tempo in quanto, una volta rivelato, perde di senso. D’ora in poi mi firmerò sempre col mio nome reale. Necessario? Sì, questo è un libro col quale ho iniziato un corpo a corpo in anni molto lontani, dagli anni Ottanta, addirittura, negli anni successivi alla morte di Graziella. Quando non si è più parlato di lei ho pensato che fosse una storia, la sua, chedovesse esser raccontata, non necessariamente da me. È una storia ch’è stata esplorata in saggi, inchieste, documentari. Io mi sono invece convinta che solo la narrativa potesse restituire forza a quella storia e tentare di coinvolgere il lettore. Un caso di questo tipo colpisce, indigna e commuove ma viene anche dimenticato, purtroppo. Ci ho messo molti anni, ho dovuto passare attraverso esperienze diverse di vita e scrittura per iniziare a pensare che potevo davvero realizzare questo progetto. Ho iniziato il lavoro di stesura nel 2012, lo stesso anno in cui ho dovuto, giocoforza, abbandonare l’eteronimo. Quell’esperienza di scrittura, accumulata nel tempo, andava a confluire in questo libro. Ho scelto infine questa strada: è in parte un memoir generazionale eppure non lo è; non si tratta di autofiction eppure, in parte, lo è; non è un racconto, non è una non-fiction novel eppure lo è ma cerca di racchiudere e illuminare tutti questi aspetti: la parte della verità, dei fatti, mischiandola al falso.
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Il romanzo si snoda lungo diversi piani temporali, percorrendo due strade: una è la storia di Graziella de Palo, la giovane giornalista scomparsa nel 1980. Graziella è vista dagli occhi della donna che nell’adolescenza fu la sua migliore amica, il personaggio di Dora. L’altra storia è quella del pittore olandese Han van Meegeren, realmente esistito, un artista di grande talento che però dipingeva falsi Vermeer ed è stato definito uno dei più abili falsari della storia dell’arte del XX secolo. Cosa l’ha colpita in Van Meegeren?
Facevo la corte a Van Meegeren da molti anni. In realtà mi piacciono i falsari, mi sono sempre piaciuti. Adoro F come falso (F for Fake) di Orson Welles, che ritengo uno dei suoi film più belli; anni addietro partecipai pure a un’antologia dal titolo Falso è vero. Plagi, cloni, campionamenti e simili (AAA, 1998). Non ho mai capito perché il falso venga considerato una truffa. Ci sono molti casi in cui il falso è effettivamente questo: un raggiro, imbrogliare le carte, diciamo così. Eppure il falso è anche uno straordinario atto di creazione, pure considerando il fatto che parlare di letteratura realistica può considerarsi un ossimoro. Nessuna letteratura dice la verità, nessuna storia è reale e tutti i lettori desiderano essere ingannati. La biografia di Van Meegeren è avvincente come pochi altri; la sua è la “falsità suprema”. Ha ingannato prima gli artisti, poi ha rivelato il suo trucco. Forse ha ingannato anche il tribunale che l’ha giudicato, chi può saperlo ormai? E conta qualcosa saperlo? Ho immaginato che Van Meegeren, prima di essere il celebre falsario di Vermeer, fosse convocato su una montagna delle Marche e su quel santuario che viene chiamato ad affrescare si formasse colui che poi diverrà il più grande falsario degli anni successivi. Una sorta di patto col diavolo, in grado di illuminare nelle mie intenzioni anche la vicenda vera, che peraltro di falsari pullula e non così innocenti.
Perciò il collegamento tra Van Meegeren e la storia di Graziella, pur reale, che si mischia con alcune pagine non proprio lusinghiere della Storia del Belpaese, è il tema del falso. È lecito pensare che, analizzando il tema del falso tutti i depistaggi, le fake news, le manovre più o meno oscure di agenti segreti e finanche il segreto di Stato concorrano ad alimentare la memoria di Graziella e, come lei, di tante altre vittime più o meno sconosciute (penso a Ustica, o alla stazione di Bologna) di quegli anni misteriosi e violenti?
Sono anni sui quali non è stata fatta alcuna chiarezza. Su Bologna c’è una sentenza ma quella sentenza ci ha forse restituito solo una piccola porzione di verità. Le indagini di Graziella, in quegli anni, si stavano muovendo in tutt’altra direzione. In una manciata di mesi abbiamo avuto Ustica, Bologna e poi la sparizione di una ragazza di 24 anni che ha fatto sicuramente meno eco presso l’opinione pubblica. Non penso mai all’idea del complotto con l’unica persona al comando che manovra; penso piuttosto che il male fatalmente accada, con tutta certezza, per una serie di incastri e collegamenti, anche di pasticci se vogliamo, molte sciocchezze compiute, anche se la parola “sciocchezze” è forse troppo lieve nel caso di Graziella. È come se ogni tassello poi si collegasse a un altro con l’effetto di ingigantire questo grande mosaico di accadimenti. La cosa più impressionante, quello che fa più rabbia nella morte di questa ragazza è quel risucchiare in un buco nero tutti i lati oscuri che riguardano questo nostro paese: il traffico d’armi, Gladio e la banda della Magliana visto che Massimo Carminati era proprio a Beirut negli stessi mesi in cui c’era Graziella. La presenza di Carminati non era certo casuale.
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E il suo lettore? Come se lo immagina una volta giunto al termine di questa fiction (che per certi versi non lo è)? Perplesso, dubbioso o più consapevole?
Io spero dubbioso. Dubbioso mi piace molto perché il mio intento è proprio quello di suscitare dubbi, non solo sulla parte della cronaca reale ma anche sulla letteratura e su cosa la letteratura può essere. Non mi piacciono le classificazioni, non mi piace l’idea che il fantastico debba essere confinato in uno scaffale a parte. Il fantastico ha il diritto di entrare in tutte le storie, anche quelle più vere, perché fa parte di noi. Rimuoverlo o pensare che sia rivolto a una sola categoria di lettori forse non ha senso. Dubbi sì, quindi. Dubbi sul nostro passato, sul nostro presente ma anche su cosa leggiamo.
C’è un momento “epifanico” nel romanzo, quando Dora è di fronte a un quadro di Egbert van der Poel, un dipinto che racconta l’esplosione della polveriera di Delft. Un istante prima della deflagrazione i cronisti riportano che si è avvertita una vibrazione, la stessa che avverte Dora quando collega il dipinto al boato della stazione di Bologna e a Graziella. Di più, quella vibrazione innesca in Dora la consapevolezza di essere nell’età delle donne che lei e Graziella osteggiavano e disprezzavano, e inizia una riflessione amara e «cinerea» sul cammino percorso e il conteggio dei passi che ancora restano. Le chiedo, se le va di rispondermi: ha un buon rapporto col tempo che trascorre? Glielo chiedo perché forse il Tempo è il vero protagonista del romanzo e perché, da lettore, ho avvertito anch’io quella “vibrazione” e mi ci sono riconosciuto.
Ha ragione, il Tempo è l’altro grande protagonista del romanzo. Credo che nessuno di noi abbia un rapporto chiaro e definibile col Tempo. Io non ho mai avuto paura d’invecchiare, anzi, mi diverte vedere come il Tempo trascorre in me e in chi mi sta intorno. Ho iniziato a scrivere il romanzo quando è morta mia madre. Quando si rimane orfani dei genitori, ma ancor di più della madre, ci piomba addosso la consapevolezza di essere i primi della fila, di non aver più nessuno davanti che ci scherma, ci protegge e ci accudisce. È un cambiamento irreversibile e doloroso; Roland Barthes ha scritto delle cose bellissime sul lutto. Diceva, a distanza di alcuni anni dalla morte di sua madre, di non riuscire a passeggiare per la strada senza smettere di pensare che le persone che lo circondavano erano destinate a morire. Non voglio fare della psicologia spicciola ma un evento di questo genere ti sbatte in faccia la tua mortalità, e con questa cosa non ho effettivamente un buon rapporto. Due anni dalla morte di mia madre sono ancora pochi ma è certo che questo lutto mi ha dato il la. Il romanzo è anche un omaggio a mia madre in un certo senso, è stato scritto sull’onda di un dolore. E chiaramente un dolore ne tira indietro altri e tutto quel che ci siamo lasciati indietro ritorna a galla.
L’arrivo di Saturno è un romanzo stratificato – ne abbiamo toccato alcuni aspetti, nel corso della chiacchierata. Io trovo che sia un romanzo anche fortemente simbolico, nelle similitudini tra le due storie narrate e nel titolo. «Saturno è il pianeta dei cambiamenti e della perdita. Saturno è il dio che divora e feconda». Lo vediamo spesso rappresentato che divora i suoi figli. Cos’altro rappresenta, Saturno, nel suo romanzo?
Saturno rappresenta principalmente il Tempo nel mio romanzo, il cambiamento irreversibile. C’è, in questo libro, quel che accade a Dora, ma non solo a lei: gli agenti dei servizi segreti, lo stesso agente che va a trovare Van Meegeren sono personaggi segnati dal cambiamento. E il cambiamento più grande è quello di un paese, l’Italia, che non sa ancora capire il proprio presente, che deve fare i conti col passato, illuminare le sue zone d’ombra. Più che un cambiamento, quel che sta vivendo questo paese è un vero e proprio sballo.
Rimaniamo sull’autofiction: se ne parla tanto, forse pure a sproposito, per la narrativa contemporanea (oggi non va più di moda quella che si definiva, qualche decennio addietro, “intrusione d’autore”). Secondo lei perché l’autofiction pervade le narrazioni contemporanee e in che modo questo ha a che vedere con la diffusione dei social media e i confini sempre più “liquidi” tra pubblico e privato? Quanto giova alla Letteratura l’autofiction?
Ritengo che l’autofiction sia un tentativo di stringere un nuovo patto col lettore. Di dire: fidati di me, ti sto dicendo la verità. Pensi un po’ a Emmanuel Carrère, ch’è considerato uno dei maestri dell’autofiction, ma anche Annie Ernaux. Sono autori abili a mettersi dentro la storia, che poi parla d’altro. Ne Il Regno Carrère dice: credimi, io sono esattamente qui, ti sto raccontando il vero. Non so se centrino in questo anche i social network, forse inconsapevolmente sì. Siamo così abituati a leggere le vite degli altri e ormai tutto ciò sta diventando assolutamente normale: entrare nel web e scoprire che una persona ha ricevuto un mazzo di fiori, che un amico è entrato in ospedale per un intervento, che a un altro è nato un bambino. Fino a qualche tempo fa non l’avremmo creduto possibile. Anche in Italia questa tendenza all’autofiction è ben presente. Torno a dire: mi sembra la ricerca di un nuovo patto col lettore, là dove le forme tradizionali di questa relazione stavano un po’ sfumando. C’è una ricerca di verità che però alla fine diviene illusoria, ancora una volta. Neanche l’autofiction, infatti, dice la verità. È impossibile: sono io che filtro, sono io che scelgo quel che passa e non passa al lettore.
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Forse aggancia di più il lettore, lo risucchia per alcuni aspetti curiosi o stuzzicanti riguardanti la vita dell’autore?
Forse sì, ma non credo sia solo l’aspetto voyeuristico che viene stimolato nel lettore. Penso che ci sia proprio un meccanismo di riconoscimento, di identificazione. C’è un momento in cui l’autorevolezza dello scrittore è una faccenda che non esiste più, che viene meno, e il lettore si sente autorizzato a dire: guarda che lo posso fare anch’io, e forse pure meglio! Legittimo anche questo. Non penso che si traduca in un filone editoriale; i filoni editoriali sono altri. Lo vedo più come un fenomeno inconsapevole, il desiderio di colmare le distanze tra autore e lettore. Come per tutto, gli esiti di questi esperimenti sono a volte felici a volte no.
Nel romanzo il santuario dove Han van Meegeren riceve l’incarico è Col de’ Venti, sopra Muccia, e Muccia è uno dei paesi annientati dal terremoto. Lei è molto legata a quei luoghi. Ha inteso omaggiarli citandoli nel racconto, o c’è qualcosa di più?
Sono legatissima a quei luoghi e li avevo raccontati in un libro che uscì per Laterza nel 2014, Questo trenino a molla che si chiama il cuore. Lì racconto tutti i giorni, a partire da ottobre proprio perché Lipperatura, ch’è un blog che si è occupato a lungo di cultura e di letteratura e ora è un blog che parla di storie dal terremoto, fino a che non rientreranno le emergenze, fino a che la ricostruzione non sarà del tutto conclusa. Il santuario esiste, è stata effettivamente una delle mie mete turistiche di bambina; ogni tanto ci torno. Ci sono stata l’ultima volta a novembre, dopo la seconda scossa. La costruzione è pericolante. Sono salita per capire come l’avrei trovato e purtroppo i cornicioni sono caduti. Muccia è sgretolata, credo non ci sia neanche una casa in piedi. Purtroppo di Muccia non si parla mai, ed è un piccolo gioiello delle Marche. Quei luoghi sono un po’ la mia contea di colpe, la mia Castle Rock. Sono reali ma io li trasformo, penso che in un luogo piccolo si possano più facilmente raccontare le relazioni tra gli esseri umani.
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Un’ultima domanda, prevedibile e d’obbligo: ha in cantiere un nuovo romanzo e se sì ci darebbe una piccola anteprima?
Certo, lentamente ci sto ragionando. Ieri ho iniziato a scrivere qualcosa. Riguarderà il tema della peste e del contagio, ma sarà un progetto complesso. Ci vorrà ancora molto tempo.
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Per la prima foto, copyright: Joshua K. Jackson.
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