Storia (e storie) di una carriera. “Il fallimento della consapevolezza” di Raffaele La Capria
Il fallimento della consapevolezza è il libro che riporta Raffaele La Capria sugli scaffali delle librerie italiane. Non che li avesse mai lasciati, come giustamente è il caso di uno scrittore come lui, che dal 1952 – con la pubblicazione di Un giorno d’impazienza, sua opera prima, e definitivamente con Ferito a morte, romanzo che gli valse il Premio Strega nel 1961 e oggi inserito nella collana “Classici Moderni” della Mondadori – è una presenza intramontabile del panorama letterario italiano.
Col suo nuovo libro (Mondadori, ottobre 2018), La Capria intraprende un racconto molto personale della sua carriera di artista e intellettuale italiano del secondo Dopoguerra, partendo dai giorni lontani della sua giovinezza. Lo scrittore ricorda la sua città, Napoli, durante il fascismo e la sete di conoscenza, la voglia d’evasione, il desiderio di allargare i propri orizzonti che condivideva con la sua cerchia di amici. Si deve a questi sentimenti la nascita di «Sud», giornale culturale che essi contribuirono a fondare all’indomani della Liberazione, così come si devono a Benedetto Croce – che La Capria non esita a definire «maestro» per molti di quelli della sua generazione – gli insegnamenti intellettuali e morali che hanno portato quel gruppo di giovani (alcuni dei quali destinati a una brillante carriera nel campo delle lettere, del cinema o del teatro) ad aprirsi al mondo circostante senza abbandonare la propria identità napoletana:
«Croce ci diede la possibilità di entrare nel mondo della modernità armati degli insegnamenti morali, intellettuali, civili, politici, che lui ci aveva dato e che erano un buon approccio verso ogni tipo di letteratura.
E ci inculcò il concetto che attraverso la conoscenza della letteratura si poteva intraprendere il cammino verso una libertà spirituale e intellettuale che allora, durante il periodo fascista, ci era negata».
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Ma la napoletanità intesa da La Capria non è solo identità, nostalgia e sentimento, ma è anche motivo di chiarimenti, rivendicazioni e battaglia contro comuni stereotipi:
«Si parla sempre di “letteratura napoletana”. Sarebbe meglio parlare di letteratura e basta. Siccome Napoli ha una grande risonanza e ha dato di sé stessa al mondo un’immagine molto forte, gli scrittori che sono nati a Napoli in quell’atmosfera e che, anche leggermente, fanno un riferimento alla città, rientrano implacabilmente nell’insieme degli scrittori napoletani. Non si parla mai di “scrittore milanese”, di “scrittore torinese” o di “scrittore veneziano” con la stessa evidenza, sottolineando la provenienza come si sottolinea per uno scrittore napoletano».
Per La Capria, ogni scrittore è diverso da un altro e la comune provenienza non giustifica le classificazioni fatte dalla critica più superficiale, dove l’opera di un autore passa in secondo piano rispetto alla propria biografia o – come in questo caso – alle proprie origini:
«Questa smania di omologazione è piuttosto irritante, soprattutto perché uno scrittore si sforza per tutta la vita di creare una propria identità, a volte anche su una piccola differenza. Quella differenza su cui uno scrittore gioca la sua vita di scrittore. Se viene annullata dall’omologazione della napoletanità, che senso può avere lavorare per una vita?»
In questo libro La Capria ripensa la propria vita e la propria carriera anche attraverso testi e documenti d’altro tipo. Nel capitolo intitolato Un’autorappresentazione, per esempio, redige un breve profilo di se stesso in terza persona in cui ritroviamo, potenziata, la sottile autoironia incontrata nei capitoli precedenti e che non fa sconti nemmeno alla sua professione di scrittore. Un’attenzione e un interesse particolari meritano invece i documenti acclusi nel volume: mi riferisco alla conversazione fra La Capria e il sociologo Domenico De Masi, ricca di spunti e motivi di riflessione, e al capitolo Lettere inedite a Peppino dove è raccolta una parte della corrispondenza che La Capria scrisse e inviò all’amico più caro, Giuseppe Patroni Griffi, mentre, poco più che ventenne, prestava servizio militare a Caserta.
Se comunque esiste qualcosa di cui Raffaele La Capria non può non parlare, questo qualcosa è la letteratura, tanto che il libro può essere considerato un grande discorso su di essa in continuazione e dialogo con le sue pubblicazioni saggistiche più importanti. Spesso citate sono La mosca nella bottiglia (1996), titolo che si riferisce a una metafora di cui La Capria spesso si serve per rendere l’idea di una mente e di un’immaginazione imprigionate dall’ambiente loro imposto, e Lo stile dell’anatra (2001), dove l’autore paragona la propria scrittura al modo di nuotare dell’uccello. In effetti, partire dalle proprie esperienze pare essere la caratteristica di La Capria maggiormente notata dai suoi critici, per i quali, nei suoi riguardi, adduce lo scrittore sulla scorta di una disputa di lungo corso, «l’aggettivo “autobiografico” assume un tono lievemente riduttivo, come fosse riferito a chi non ha fantasia a sufficienza ed è dunque costretto ad attingere dalla vita la sua materia narrativa».
Poco prima, nel medesimo capitolo Un’autorappresentazione, La Capria aveva comunque avuto modo di definirsi da solo:
«Egli non è un letterato né un romanziere, è uno che sta in mezzo e cerca di combinare una naturale inclinazione saggistica con una naturale inclinazione narrativa, fondendo le due cose – quando capita – con una certa levità».
Né letterato né romanziere, quindi, ma uno che sta a metà strada fra i due. Dubito esista una parola per questa posizione mediana, per quanto potrei seguire la strada indicata da La Capria, cominciare a parlare di “saggi-ere” o di “romanz-ista” e vedere se ciò avrà un seguito (è così che nascono parole nuove), ma non penso che il conio di un neologismo rientri fra i suoi auspici. Probabilmente la parola scrittore senza aggettivazioni è quella che più si confa al caso suo; non è forse per un anelito di libertà che, da ragazzo, La Capria si rivolse alla letteratura?
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Il fallimento della consapevolezza è un libro sulla letteratura e sulla libertà, scritto con l’inchiostro del mestiere sulla pagina rugosa dell’esperienza. È un libro di una lucidità rigorosa, una lettura che ha tanto da insegnare benché non ne abbia la pretesa. Forse perché ciò che illustra è il risultato di una ricerca personale, lunga e difficile che non può essere compendiata. La Capria lo sa bene e la lingua apparentemente semplice e diretta di questo libro è la risposta a cui egli è giunto dopo aver attraversato epoche storiche e stagioni letterarie tra loro diversissime, riuscendo ad apprendere da ciascuna di esse. «Solo autocriticandosi si può cambiare, e solo cambiando si diventa sé stessi»: se quanto dice La Capria a proposito delle culture ha una validità anche per gli uomini che le animano, per uno scrittore, che fra gli uomini e le culture è il naturale intermediario, è vero due volte. Nemmeno questo è un insegnamento, né è una constatazione o una di quelle frasi fuori dal tempo e che in esso, poi, non rientrano più; è una testimonianza, la testimonianza di una lunga e onorata carriera che con questo nuovo libro ha trovato ancora una volta il modo di attualizzarsi.
Per la prima foto, copyright: Ingo Hamm.
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