Storia di un viaggio. “Isola” di Siri Ranva Hjelm Jacobsen
L’eterna ricerca di una patria, il desiderio di conoscere le radici familiari, l’irrimediabilità di un esilio e la consapevolezza che gli antenati vagano nel presente come spettri da cui si resta per sempre segnati: questi sono i motivi principali intorno a cui si dispiega Isola di Siri Ranva Hjelm Jacobsen, uscito quest’anno per Iperborea nella traduzione di Maria Valeria D’Avino.
La Jacobsen, cresciuta in Danimarca ma di stirpe originaria delle isole Faroe, in questo libro – suo esordio narrativo – ripercorre la storia della sua famiglia: anzi, sarebbe meglio dire, la storia dei personaggi che la compongono, in particolar modo dei nonni, abbi e omma, tenendo come filo rosso della narrazione il viaggio che intraprende con il padre e la madre, dopo la morte della sua omma, nei luoghi delle loro origini: queste isole a nord della Danimarca, gelide e sfregiate dal vento.
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I nonni ormai sono morti. Coloro che seguendo i loro i sogni hanno interrotto il racconto, la continuità della famiglia in quei luoghi, non ci sono più, e la madre della voce narrante sente il bisogno «di tornare a casa dopo tutti quei funerali», perché le Faroe sono la loro casa, il loro luogo di appartenenza, per quanto non vi abbiamo mai realmente vissuto.
«La casa non è per forza un concetto geografico. Nemmeno se si guarda un atlante.»
La protagonista e sua madre vengono accompagnate dal padre – soprannominato Tarantola – attraverso questo viaggio lungo i luoghi antichi, nelle case dei parenti rimasti. La figura di Tarantola – che quasi non parla e che non compie alcuna personale rielaborazione psicologica dei fatti in cui s’imbattono – incarna il concetto dello straniero e allo stesso tempo di colui che ha una patria. Non vi è in lui la nevrotica e sfiancante ricerca di un’Itaca, anche solo spirituale.
«Quando eravamo a casa, sulle isole, mia madre aveva molti luoghi sacri da visitare»,dice la protagonista, mettendo così la madre in contrapposizione con il padre, che si muove in quegli spazi senza esserne perturbato.
L’autrice rimanda esplicitamente all’Odissea raccontando di quando il nonno prendendola sulle gambe la leggeva ad alta voce. Il nonno, che se n’era andato per studiare ma che avrebbe sempre desiderato tornare alle sue isole. «Si porta dentro il viaggio come una perdita». È la nonna, custode di un segreto e portatrice di un peso che la collega drammaticamente alle sue isole, a non volervi mai più tornare.
«Potevamo essere nel pieno delle avventure di Ulisse, della festa nella casa di Circe, dopo che i suoi compagni erano tornati uomini da porci che erano. Allora s’interrompeva, abbassava la mano libera sulla pagina come per ripararla, come a voler tappare le orecchie del libro, e poi: se-non-fosse-stato-per-la-tua-omma.»
Protagoniste assolute di questo racconto restano comunque le isole, sono loro a disegnare e a determinare i destini dei personaggi: li possiedono – li tengono in pugno.
Non solo le Faroe, con i loro ricordi e con la loro asprezza, ma il concetto stesso di isola suscita nei personaggi una continua e tenace necessità di rielaborazione. Una riflessione e un immaginario che si muove sul labile confine del verosimile, a cavallo fra il reale e la favola nordica.
Quando si pensa a quei lenzuoli di terra galleggianti la cifra dello stupore e dell’incanto prende il sopravvento sulla realtà.
«Le isole più piccole possono nascere in una notte, e possono sparire in una notte.»
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Tutto dunque in questa storia, che viene narrata come un canto, con ritmo rapsodico, ha una vita propria. Il fiordo ha un’anima, le isole hanno una volontà di potenza, i luoghi parlano e raccontano le vicende del passato. La protagonista e il lettore rimangono storditi dal liquore del tempo e della visione di cui questa storia è imbevuta. È un canto d’abbandono al passato, una resa dei conti con quello che si è perso per sempre: la natura, la continuità, una patria. E da questo vortice emotivo e struggente solo i morti, con la loro realtà di un’esistenza vissuta, possono trarci in salvo.
«Più tardi scesi al porto. L’aria cantava bassa e celeste sul fiordo. Mi sentivo smarrita. A distanza i morti continuavano a danzare tenendosi per mano, ma da vicino tutto si sfaldava in particelle e viticci. Mi sentivo avvinta dalle braccine di castagna della prozia Ingrùn. Fin intorno al collo.»
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