Storia di un corpo di donna. “Permafrost” di Eva Baltasar
Una voce femminile è al centro di Permafrost, il romanzo di Eva Baltasar, già vincitore nel 2018 del Premio Librai Catalani, pubblicato in Italia da Nottetempo con la traduzione di Amaranta Sbardella.
Il Permafrost è comunemente identificato come un terreno tipico dell’America del nord, della Siberia, dell’estremo nord Europa, completamente ghiacciato. Baltasar trasla il concetto per adattarlo alla fisicità del corpo femminile: un corpo di donna diventato teatro di ossessioni e conferme, piaceri e patimenti, godimenti e sofferenze.
L’esistenza di questo corpo è raccontata in prima persona dalla protagonista, da colei che lo abita e possiede, una donna sui quarant’anni, dalle numerose ossessioni – il sesso, la morte, le donne, la famiglia. In questa breve ma intensa narrazione di Baltasar sono ripercorsi i momenti salienti, secondo una logica tutta soggettiva, della vita di questa donna. Da Barcellona, alterna ricordi recenti e passati in uno stile che incanta e ammalia, che è vivo e viscido, attraente e pericoloso, raccontando vicende intime e privatissime, a tratti scandalose, comunque sconvolgenti.
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Permafrost non si presenta però come un libro eccezionale. È piuttosto un’escalation di senso: un graduale processo di acquisizione di significato che soddisfa la necessità di conoscenza del lettore ignaro. Acquisire il senso, nell’ottica di Baltazar, corrisponde a proporre una scrittura sensoriale e umorale, che fa dei dettagli corporei la corona di fiori da porre sul capo della protagonista. Ogni azione o reazione afferisce alla sfera sensoriale, a quella tattile soprattutto, ma non si esaurisce alla concretezza del corpo: è sintomo di una propensione mentale, che proprio attraverso la pelle si manifesta nella sua pienezza.
L’approccio con il sesso all’età di dodici anni attraverso un film in televisione, la masturbazione, la sovrapposizione del piacere sessuale al piacere di assaggiare una caramella, e ancora la scoperta del corpo femminile altro dal proprio, la ricerca del piacere in altre donne, sono manifestazioni esterne di un’identità interiore, del quale il permafrost – appunto – rappresenta solo la superficie.
La stessa ossessione della morte, che più e più volte ritorna come un mantra nel romanzo più per rimarcare la sua essenza oppositiva alla vita che non l’ambizione a raggiungerla, è il sintomo di una predisposizione d’animo che deve esplicitare le proprie fragilità attraverso gesti estremi ed esterni al corpo.
Attraverso il corpo e al di là del corpo si esprime l’essenza di questa donna, indefinibile secondo i canoni sociali tradizionali eppure così nitida agli occhi del lettore in virtù della sua concretezza. Essa esiste e si manifesta nel romanzo come un’entità potente, un personaggio letterario encomiabile nella sua perversione, nel desiderio di uccidersi, negli scongiuri nei confronti di persone che dovrebbe amare ma che disprezza. È maledettamente imperfetta e acquisisce per questo un valore umano, oltre che letterario, incredibile.
«Ora devo rilasciare una dichiarazione: non sono una persona sincera. No, sono una persona che mente. Mento da quando ho memoria, molto, ogni giorno, in modo quasi inconsapevole, naturale. Mento talmente tanto che sono arrivata a credere di avere una qualche patologia. La verità è che ciò ha ripercussioni così irrilevanti sul mio quotidiano che non sento la necessità di porvi rimedio.»
Barricata all’interno di una gabbia in cui si è reclusa consapevolmente, tutta la sua vita, tutti gli episodi che condivide con il lettore sono strumentalizzati per riproporre sempre gli stessi schemi mentali, come un cane che si morde la coda ancora, e ancora, e ancora… Una forma di autogiustificazione cui tutti ricorrono in diversi momenti della loro vita e che è emblematica di una generazione di individui sull’orlo di un burrone.
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Permafrost è un resoconto sacro e profano della bestialità dell’essere umano e della profondità che si cela dietro ogni gesto.
Per la prima foto, copyright: Hanna Postova su Unsplash.
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