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Storia di un’anima indifesa davanti al bullismo. Intervista a Giuseppe Cesaro

Storia di un’anima indifesa davanti al bullismo. Intervista a Giuseppe CesaroIndifesa s’intitola il primo romanzo firmato da Giuseppe Cesaro e pubblicato oggi da La nave di Teseo. A essere indifesa è l’anima di Andrea che, da ragazzo, si ritrova circondato da compagni di classe che lo rendono vittima di violenze e soprusi e da adulti che non lo capiscono e che sembrano non amarlo. È così che la vita di Andrea trascorre tra sofferenza e solitudine, fino all’incontro con Livia, l’unica che sembra capirlo e amarlo per quello che è. E anche provare a definire l’identità di Andrea non è così facile, dato che tutta la sua vita sarà una continua altalena tra un’identità maschile e quella femminile.

Sono questi alcuni dei temi di cui abbiamo parlato con Giuseppe Cesaro nell’intervista che ci ha gentilmente concesso.

 

Indifesa segna il suo esordio come romanziere, dopo un lungo periodo dedicato alla scrittura e al raccontare storie dedicandosi ad altro. Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a fare il grande passo?

È un grande passo, è vero. E le confesso che “sento molto” la vigilia, come dicono gli atleti prima delle gare importanti. Anche perché so che sarà una prova decisiva. Negli ultimi quindici anni, ho scritto e pubblicato molto. Una media di due titoli l’anno. Ho ottenuto critiche esaltanti. Persino “imbarazzanti”, a volte. E ho vinto anche qualche premio. Nessuno, però, di quei libri, portava la mia firma. Indifesa, dunque, è il mio primo romanzo firmato da me. Un ponte che potrebbe permettermi di passare il fiume che separa il limbo dell’invisibilità dalla terra degli autori. Fino ad oggi, le mie parole e io ci siamo comportati come amanti clandestini, costretti a nasconderci agli occhi della gente. D’ora in poi, forse, potremo abbracciarci, camminare mano nella mano, sorridere insieme e stare in mezzo agli altri.

Cosa mi ha spinto ad attraversare questo ponte? La fiducia e la stima di un’editrice di grande fiuto, idee e visione: Elisabetta Sgarbi. Lei 2 che è una persona di pochissime parole e che, di solito, si esprime a monosillabi – quando ha letto la bozza di Indifesa, mi ha scritto un lungo e appassionato messaggio (che conservo tra le cose alle quali tengo di più): parlava di “tensione narrativa”, “spessore umano e morale”, “carattere stilistico”; di “un solco nuovo, rarissimo, nella letteratura contemporanea”. “È ora”, ho pensato. Per chi scrive, è sempre difficile valutarsi. I nostri occhi – come accade a ogni essere umano – sono in grado di vedere tutto tranne noi stessi. Per guardarci, abbiamo bisogno di rifletterci in uno specchio. Elisabetta è lo specchio ideale. Grande, lucido, fedele. E riflette sempre la verità. E, così, mi sono fidato e affidato a lei. Come, del resto, mi sono fidato di Andrea, il protagonista del romanzo. Mi ha preso subito, fin dalla prima volta che ci siamo “incontrati”. La sua è una storia straordinaria. Letteralmente. Meritava di essere raccontata. Spero solo di essere riuscito a renderle giustizia.

 

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Al centro di Indifesa c’è Andrea, un ragazzo che ha rischiato di «precipitare da un filo teso su qualcosa che ancora oggi non saprei definire». Da scrittore e in un certo senso da osservatore esterno, se la sentirebbe di provare a definire i contorni di questo qualcosa? In caso contrario, perché non le sembra possibile farlo?

Questo “qualcosa” è l’essenza stessa del tema del romanzo. Come lei sa, Andrea è un nome ambigenere: può indicare sia un uomo che una donna. In questo caso, indica entrambi. Per questo, proprio all’inizio, lui dichiara che quel nome lo ha salvato. Il filo sul quale quest’anima “indifesa” è costretta a camminare, dunque, è un filo teso tra due identità: quella maschile e quella femminile.

Nell’anno della sua terza media, infatti, durante l’ora di scienze, Andrea chiede di andare in bagno. Mentre è lì, ha una fortissima emorragia. Una volta a casa, si rende conto di essere diventato una ragazza. Ma non è tutto. Anzi, è solo l’inizio. Presto si accorgerà che quella trasformazione non è definitiva. Per tutta la vita, Andrea farà avanti e indietro tra queste due nature, senza mai sapere né quando né perché. E senza sapere nemmeno quanto durerà, ogni volta, il suo essere uomo o donna. È questo il filo teso sul quale sarà costretto a camminare, cercando disperatamente di trovare un equilibrio e, soprattutto, di mantenerlo.

Tutt’intorno a lui, un mondo inospitale, arido e ostile, che non riesce ad accettarlo – meno ancora ad amarlo – e non vuole avere niente a che fare con lui. Un mondo che ha molta più paura di Andrea (e di ciò che rappresenta o teme potrebbe rappresentare) di quanta Andrea non ne abbia di lui, della sua aridità e ostilità; della sua cattiveria. Un mondo che esorcizza la paura emarginando ed escludendo Andrea e sottoponendolo a continue violenze fisiche e psicologiche. Fino all’incontro con Livia – una delle rarissime figure positive del romanzo – che saprà capire e amare Andrea e insegnerà a farlo anche a lui.

Storia di un’anima indifesa davanti al bullismo. Intervista a Giuseppe Cesaro

A essere indifesa è l’anima di Andrea che, adolescente, si ritrova isolato da tutto e da tutti, a partire dai compagni che lo rendono vittima di continue cattiverie. Cosa rappresenta la solitudine per un ragazzo come Andrea? Un rifugio, una via di fuga, una forma di autoaffermazione, un passaggio necessario?

La solitudine di Andrea non è scelta: è subita. Ed è il frutto di una somma di diversità: troppe per essere accettate. È povero in una scuola di ricchi, sensibile in un mondo arido, riflessivo tra gente alla quale non interessa pensare né capire; silenzioso in mezzo a una Babele di voci tanto più urlanti quanto più vuote e prive di senso; pacifico in una società rapace, nella quale il modello dominante è quello dell’homo homini lupus.

Andrea non fugge il confronto. Anzi, lo cerca. Non vuole nascondersi né isolarsi; vorrebbe relazionarsi e interagire: conoscere ed essere conosciuto. Creduto, soprattutto. Cosa che – a parte sua madre e Livia – non farà nessuno. Nemmeno suo padre. Sente lo stesso bisogno degli altri che hanno tutti, e vorrebbe solo che gli venisse riconosciuto il diritto di essere la persona che è. Al contrario degli altri, però, non è disposto a rinunciare a se stesso e “perdersi”, solo per essere accettato ed entrare a far parte di un “branco”, del quale non condivide nulla: pensieri, sguardi, parole, gesti, voglie.

E la musica – scoperta per caso, sgattaiolando nella sala professori durante una ricreazione – non è un mondo fantastico nel quale rifugiarsi per sfuggire alle persecuzioni del mondo reale, ma la chiave di una porta che lo aiuterà a mettersi in contatto con se stesso e il lessico di un linguaggio che gli consentirà di comunicare con le pochissime anime affini. La bellezza, forse, non salverà il mondo, ma Andrea si rende conto che potrebbe salvare almeno lui. E capisce che non può fare a meno di rischiare.

 

La narrazione prende avvio con la morte del padre di Andrea, che è anche l’occasione per il giovane uomo di ripercorrere la sua storia. Cosa rappresenta per Andrea il venir meno di un padre come il suo, assente ed eccessivamente severo e protettivo?

La morte del padre fa capire ad Andrea che è giunto il momento di tirare le somme e tentare un bilancio. La sua non è un’anima giudicante e, dunque, non punta il dito. Sa che l’incapacità di amare 2 che suo padre non è mai riuscito a superare – è un “peccato” che contiene in sé la sua pena. Non servono altre punizioni. E sa anche che il perdono è l’unica condizione che può sciogliere il nodo che li lega, e liberare entrambi. Va sulla tomba del padre, dunque, come gesto di pacificazione, consapevole del fatto che non potrà trovare pace fin quando non riuscirà a fare pace con la persona che più di ogni altra lo ha ferito.

In questo senso, Indifesa è anche un romanzo che interroga – naturalmente senza la pretesa di suggerire risposte – sul senso della fede. In cosa crediamo, davvero – ci chiede – quando “crediamo di credere”?

Per questo nessuno – a parte Livia – ha mai visto Andrea donna. Né la madre, né il padre, né i professori o i compagni di scuola (per fortuna: altrimenti chissà cos’altro sarebbe potuto succedere). Nemmeno i medici. Andrea non si farà mai vedere da nessuno. E questo perché nessuno – a parte Livia, l’unica persona che lo ama per ciò che è – smetta mai di chiedersi chi sia, in realtà, Andrea. Ma, soprattutto, perché nessuno smetta mai di mettere alla prova la propria capacità (o incapacità) di amare.

La madre gli/le crede; il padre no. Lui, però, non si fa vedere da loro non per proteggere se stesso ma per proteggere loro; per non distruggere la loro fede. Se, quando diventa donna, si facesse vedere da suo padre, lui sarebbe costretto a credergli. Ma gli crederebbe – appunto – solo per aver visto; per aver messo – per così dire – “il dito nel costato”. E in quello stesso istante, si renderebbe conto che quella fede che crede così forte e salda, sulla quale ha costruito tutta la sua vita e la sua morale, in realtà non una è una vera “fede” ma un sentimento talmente fragile e insicuro da aver bisogno di prove tangibili. Prove che – se esistessero – sarebbero la negazione stessa dell’idea di fede. Lo stesso accadrebbe alla madre, se Andrea le si mostrasse quando è donna. Lei, infatti, gli ha creduto, pur non avendolo mai visto trasformarsi in una donna. Mostrandosi a lei, Andrea finirebbe col bruciare tutti i suoi sforzi di credere, vanificando una fede incerta e flebile ma vera, che mille domande e mille dubbi fanno continuamente oscillare ma non riescono mai a far cadere.

 

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Andrea definisce così la sua storia: «Ho sempre abitato lo stadio sbagliato. Uovo, quando tutti erano bruchi; bruco, quando erano pupe, e pupa, quando erano adulti. La mia è la storia di una irrecuperabile mancanza di sincronia.» Perché da scrittore ha voluto raccontare questo disagio? E che idea si è fatto delle cause che portano un ragazzo a sentirsi diverso?

Ho cercato di dare voce a questo disagio, perché credo sia tra i più difficili da vivere e da superare. Il mondo sembra avere un proprio metronomo, naturale oltre che sociale. Alcune anime, però, risultano perennemente fuori tempo, rispetto all’oscillazione di quel metronomo. È come se si trovassero sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Andrea è una di queste. La domanda è: esiste davvero quel metronomo? E chi definisce tempi e ritmi delle sue oscillazioni?

La “diversità” non esiste in natura. Esiste solo in riferimento a qualcos’altro. Ma anche questo qualcos’altro, però – la “normalità” – esattamente come la diversità, non esiste in natura. Chi decide, allora, cos’è “normale”? Sulla base di quale “codice” la “norma” diventa “regola”? E su quale “diritto” si fonda quel “codice”? E quante delle cose che ieri ci sembravano normali, oggi ci sembrano assurde domani? Non sarà, allora, che – allo stesso modo – molte delle cose che oggi ci sembrano assurde, domani ci sembreranno normali? Ma, soprattutto: “può esistere in natura qualcosa che sia contro natura?”.

Storia di un’anima indifesa davanti al bullismo. Intervista a Giuseppe Cesaro

Indifesa però è anche un romanzo di formazione perché Andrea alla fine riuscirà a trovare qualcosa e qualcuno in grado di donargli la giusta forza. È possibile superare del tutto le conseguenze del male subito oppure in un modo o nell’altro è qualcosa con cui dovremmo fare i conti per sempre?

Il male nasce con l’uomo e, purtroppo, non morirà prima di lui. È qualcosa che portiamo dentro da sempre e con il quale saremo costretti a combattere per sempre. A meno di non arrendersi e cedere al suo richiamo, che, spesso, è più forte e assai più seducente di quello del bene. Da molto tempo il Grande Inquisitore ci ha insegnato che l’uomo desidera la libertà ma, allo stesso tempo, ne ha paura. E che quella paura è molto più forte del desiderio. E, dato che nessun essere umano è immune dal male, viviamo stretti tra due fuochi: il male che ci corrode dentro e quello che ci assedia da fuori. E, spesso, per sostenere l’impatto di quell’assedio – invece di allearci con chi, come noi, sta cercando di combattere l’esercito che ci assedia – ci alleiamo con il nemico, nella speranza che, una volta “entrato in città”, ci considererà suoi alleati e ci tratterà da suoi “pari”. Ma il male non scende mai a patti con le anime che conquista, né si accontenta di occupare solo in parte i territori sui quali ha messo gli occhi. La nostra speranza, dunque, si rivela presto un’illusione. La Storia sarà anche una grande “maestra di vita”, ma, a quanto pare, gli esseri umani continuano a disertare le sue lezioni.

 

Mi sembra che nel romanzo non compaia mai la parola “bullismo”, anche quando il riferimento è a un periodo temporale più vicino al nostro, quando invece di bullismo si parla molto. Perché questa scelta?

Ha ragione: quella parola non appare. Credo che i motivi siano sostanzialmente due. Il primo è che gli episodi di bullismo narrati avvengono in un decennio che va dalla seconda metà degli anni Sessanta alla prima metà degli anni Settanta: un periodo nel quale il fenomeno esisteva (credo sia sempre esistito e temo esisterà sempre), ma il termine non era ancora così utilizzato come oggi.

Il secondo è che Andrea è vittima del bullismo nel periodo di passaggio tra fanciullezza e adolescenza, e quel termine non fa ancora parte del suo vocabolario. Col passare del tempo, naturalmente, entrerà a farne parte, ma a quel punto Andrea deciderà di raccontare la sua storia senza categorizzare, etichettare né giudicare. Per tutto il dolore subito – dolore che porta dentro di sé e che non può e non vuole dimenticare (anche perché, per lui, perdonare implica il ricordare: senza memoria non può esserci perdono) – sa così bene cosa significa soffrire che non intende infliggere agli altri ciò che ha patito lui. La sofferenza non si lava con la sofferenza. L’animo umano è un terreno fertile nel quale si raccoglie sempre ciò che si semina. Chi semina dolore, dunque, sarà sempre destinato a raccogliere dolore. Nelle due vite di Andrea c’è stato dolore più che sufficiente a riempire molte vite. Che senso avrebbe seminarne ancora?


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Per la prima foto, copyright: Tyler Nix.

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