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Storia di un’amicizia perduta in “Lettera a Dina” di Grazia Verasani

Storia di un’amicizia perduta in “Lettera a Dina” di Grazia VerasaniÈ uscito oggi Lettera a Dina (Giunti), l’ultimo romanzo di Grazia Verasani, autrice che attraversa generi e linguaggi: si passa dalla saga noir inaugurata con Quo vadis, baby? (da qui è stato tratto l’omonimo film di Gabriele Salvatores, con al centro l’irregolare Giorgia Cantini), per arrivare ai lavori più introspettivi e malinconici, come Tutto il freddo che ho preso e Mare d’inverno – accanto ad essi, la scrittura per il teatro (From Medea) e per il cinema (Maternity Blues), inoltre la musica, il cantautorato.

Lettere a Dina è una sorta di “ricerca del tempo perduto” che mette in scena una scrittrice molto vicina ai 50 anni, che torna con la memoria all’amica degli anni della fanciullezza. Dina entra nella sua vita quando le ragazzine hanno 12 anni. L’innesco dei ricordi della protagonista è quasi proustiano, si parte infatti da una canzone sentita per radio (E mi manchi tanto, degli Alunni del Sole): «Un 45 giri di cui non ricordavo la copertina, ma la tua voce acuta, sottile, arrivò di nuovo, dopo trentasette anni. Ripeto: trentasette anni. E rividi tutto».

Dell’amica di molti anni prima rimangono istantanee precise, indimenticabili. Dina disegnava svastiche sul banco, si ingozzava di bignè, era viziata e grassoccia, viveva in un enorme appartamento con una madre dalle unghie laccate, donna fatale che fumava Muratti a tutto spiano e pareva essere sempre presa da altro. Mentre l’altra era figlia di comunisti che andavano in vacanza in URRS col partito, famiglia modesta, però normale, presente. L’amicizia che nasce fra le due bambine è come un colpo di fulmine, che si traduce in un rapporto simbiotico.

Col tempo Dina rivela una natura e un’irrequietezza indomabili. Allo stesso tempo è seduttiva, irresistibile, di un’intelligenza feroce. Difficile starle accanto, anche solo “sopportarla”. Tanto che molti anni dopo, la nostra scrittrice si trova a pensare che: «Se incontri presto sulla tua strada qualcuno che ti chiede tutto, impari che quel tutto non ha regole e non ha rispetto, che quel tutto forse è l’amore».

A un certo punto, fra i venti e i trent’anni, le due amiche si perdono. Che fine ha fatto ora Dina? È scomparsa, oppure morta? E se è così, come e quando è successo? L’io narrante dovrà compiere un viaggio a ritroso, nei ricordi di gioventù (complici il vecchio amico M. e uno psicoanalista sui generis) con tutti i rischi che questa ricerca comporta.

Proprio in occasione dell’uscita del libro abbiamo chiacchierato un po’ con Grazia Verasani che ha accettato di rilasciarci quest’intervista.

 

Dina è un personaggio indimenticabile, anche grazie al filtro attraverso cui viene narrato: la voce di questa scrittrice che torna agli anni della sua fanciullezza. Come sono nate, nella sua immaginazione di scrittrice, queste due figure e la particolare natura della loro amicizia?

La voce narrante è quella di una donna al guado dei cinquanta. Forse è maniacale, nella mia generazione, voltarsi indietro nel tentativo di sciogliere i nastri ingarbugliati di ricordi che la memoria elabora, reinventa. Credo che Dina sia un po’ la Ferita di Filottete della protagonista. E che in quel buco nero, ma anche colorato, lei voglia perdersi di nuovo, anche solo per avere la conferma che certi legami sono imperituri, diventano materia organica, corpo, costituiscono la tua “base”, non solo emotiva. Base di partenza, e di ritorno. Non te ne separi mai, fanno parte di te, nel bene e nel male. Le due ragazzine, poi donne, sono “strane”, e in questo simili. Ma il colpo di fulmine, l’attrazione, nasce dalle loro differenze. Succede quasi sempre così.

Storia di un’amicizia perduta in “Lettera a Dina” di Grazia Verasani

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In Lettera a Dina sembra che ogni sguardo al passato nostro o altrui contenga implicitamente l’idea di una detection, di un’indagine. Pensa che sia una corretta interpretazione? Nella costruzione del libro, quanto di tutto questo è stato deciso e quanto è semplicemente accaduto?

Sì, è corretto. Ogni mio romanzo del resto, anche quelli noir, sono indagini sui sentimenti. Qui si tratta di capire se Dina è realmente morta, quando e in quali circostanze. Quindi c’è un percorso a ritroso e il bisogno di sapere come sono andate le cose, ma fino a un certo punto, lasciando un margine attivo all’immaginazione, anche perché non c’è mai una sola verità, una sola versione.

 

Spesso nei suoi libri ricorrono alcuni temi: la nostalgia, il bisogno di ricostruire importanti archi di vita e quello di confrontarsi con la propria e altrui identità. A volte, c’è il rimpianto. In esergo al libro c’è una citazione sibillina di Saul Bellow, perfettamente vicina alle vicende dei suoi personaggi: «Il significato di una storia privata è tutto qui: un esilio». Potrebbe dirci qualche cosa su questi aspetti?

Credo che un romanziere nasconda la propria autobiografia come invisibili note a margine, per pudore, ma anche per esaltare l’essenza di un’esperienza al di là delle cronistorie, in modo da comunicarla al lettore in modo diretto, ma senza svelarne tutti i segreti. C’è un esilio in ogni dolore che ci appartiene in modo così profondo da indirizzare la nostra vita in una direzione piuttosto che in un’altra. La terra che ci ospita diventa quella da cui guardiamo la nostra patria perduta. Che poi, è quasi sempre l’infanzia…

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In un’intervista ha sottolineato che vuole che i suoi personaggi siano “nel mondo, nella società”. In Lettera a Dina c’è sullo sfondo una certa storia politica di Bologna, la politica fatta dai giovani, il clima culturale degli anni Ottanta, gli entusiasmi, e c’è anche l’eroina, la contrapposizione ideologica, le asperità di quegli anni (cito: «Eri persa, ti eri persa, eri andata oltre, e io non potevo farci niente. Negli anni che seguirono ne vidi tanti perdersi nel tuo stesso modo. Una vera e propria moria. Non so davvero perché non ci cascai»). Come è finita “quella” storia e com’è cambiata Bologna?

Gli anni in cui crescono le mie due protagoniste sono stati estremamente complessi, feroci e appassionanti: grande creatività, la passione per la politica, la droga come fuga dal dolore ma anche come forma di ribellione. L’anticonformismo a mo’ di arma, spesso contro noi stessi. È vero, Dina si perde, un po’ come nella canzone dei Joy Division She lost control, l’altra invece no, o trova solo un altro modo, e cioè scrivere. Bologna in quegli anni era una città avanti a tutte le altre, in senso artistico, musicale e culturale, era una città innovativa e controcorrente. Ora ovviamente non è più così. I problemi del Paese toccano tutte le realtà. Ma questo non significa che non esistano orizzonti alternativi, nuove possibilità. Semplicemente, racconto un mondo e una città che non c’è più. Come un potenziale che si è spento, e forse doveva andare così. Perché era in eccesso.

 

La musica. Lettera a Dina ha una playlist interna che contiene una parte di storia musicale pop italiana e non solo, oltre alla musica classica. C’è questa musica, e poi c’è la musica della sua scrittura: ogni passo, se letto a voce alta, rivela un ritmo interno. Ogni frase ha un preciso tempo che si rivela perfettamente nella composizione del paragrafo. Qual è il suo rapporto con la musica? E quanto la sua formazione teatrale tuttora conta, nella sua scrittura?

Grazie davvero per averlo notato. Perché questo romanzo, più di altri, ha avuto bisogno di essere scritto come uno spartito musicale, di seguire un crescendo preciso, delle modulazioni sonore e un ritmo su cui ho lavorato molto duramente. Desideravo che fosse breve e denso. Che lasciasse trasparire l’intensità di un’amicizia unica, determinante, tra ascese e discese, disfunzionalità, come una rapsodia libera da schemi. La musica è alla base della mia scrittura, e credo anche della mia vita. Ascolto tutto. Non sono snob. Ho suonato il pianoforte classico ma non disdegno il pop. L’esperienza drammaturgica, invece, mi è molto utile nella scrittura dei dialoghi.

Storia di un’amicizia perduta in “Lettera a Dina” di Grazia Verasani

Come cambia, se cambia, la sua routine di vita e di lavoro quando scrive le storie che hanno al centro Giorgia Cantini, storie che possiamo chiamare noir, e gli altri libri, come Tutto il freddo che ho preso, Mare d’inverno, e quest’ultimo Lettera a Dina?

Spero che la mia voce sia sempre la stessa. Credo davvero che un libro è la personalità di chi lo scrive, e quella non cambia, come un registro di fondo, su cui costruisci nuove storie, nuove strutture, ma la voce è la tua, pregi e difetti. Ho cominciato con la narrativa “bianca”, e anche il noir lo uso infrangendo molte regole, occupandomi di temi sociali o esistenziali che mi premono e lasciando che Giorgia Cantini se ne faccia portavoce. Cambia poco. Ogni romanzo è un mistero, e ha la sua “suspense”.

 

In Lettera a Dina c’è una anche una piccola foresta di rimandi letterari (a partire da Cristina Campo, che lei cita, e le cui Lettere a Mita ricordano il titolo del suo libro). Del resto, l’io narrante è una scrittrice. Quali sono gli autori più importanti per la scrittrice Grazia Verasani?

Sono tantissimi. Céline in primo luogo, proprio per la sua forte musicalità. Scrittrici come la Ortese, la Ginzburg, e oggi la Ernaux o la Humphreys. E poi Jack London, gli scrittori della lost generation, Rilke, le sorelle Brontë, i noiristi francesi, tanta poesia… anche contemporanea.


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