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“Stoner” di John E. Williams

John Williams, Stonerdi Filippo Belacchi

È la seconda volta che tento di scrivere una riflessione su Stoner, il romanzo di Williams (trad. di S. Tummolini, Fazi editore, 2012) che fa tanto parlare schiere assieme ammirate e perplesse di lettori. Ho l’impressione che le difficoltà legate allo scrivere di questo libro siano dovute alla forma, allo stile, alla voce di questo romanziere che bisbiglia cose enormi. Credo che l’autore sia riuscito a rompere, o almeno a scalfire, la mia armatura di lettore. È un romanzo ordinario e allo stesso tempo bizzarro. Narra le vicende di William Stoner, figlio di braccianti che s’iscrive ad agraria per diventare a sua volta bracciante, istruito però. Ma durante la frequentazione di un corso obbligatorio di letteratura inglese, il cui scopo è quello di conferire le basi di letteratura e grammatica agli studenti di facoltà tecniche, un professore un tantino antipatico, o semplicemente anglosassone (e cioè sarcastico e freddo), gli stana l’anima. Stoner precipita dentro l’oceano Shakespeare, e là immerso si perde e si ritrova. Cambia facoltà, comincia a studiare letteratura medioevale e rinascimentale di marca sassone, impara a nuotare tra capolavori antichi, si appassiona, diventa assistente, e poi docente. E in quel convento del sapere che il primo giorno di università, a guardarlo da fuori, gli procurò emozioni di euforia e soggezione, finisce col passarci la vita.

Con Stoner le cose si fanno complicate perché l’impianto, gli ambienti, le trame della vita di questo docente, smarrito, silenzioso, afono, indifeso come un sasso bianco che si potrebbe notare durante una passeggiata in campagna perché a suo modo eloquente, e misteriosamente impenetrabile proprio per la sua natura di pietra (Stoner, non a caso), si allontanano in maniera più netta rispetto alla letteratura di cui sono ingordo (per citare giusto tre romanzi composti dalla stessa sostanza della prosa di Williams ma combinati in maniera diversa: Pastorale Americana, Revolutionary Road di Richard Yates e Le vite di Dubin di Bernard Malamud). Nel personaggio Stoner s’intravedono somiglianze con lo Svedese di Roth, e magari anche con Frank Wheeler di Revolutionary Road, ma questo, a differenza degli altri, rimane imprendibile forse perché meno concepito dal suo autore, meno scritto rispetto ai suoi compagni di fantasia e quindi più frastornato dentro la sua storia. E qui arriva la parte difficile perché Stoner vive “al di fuori” della vita eppure è più vivo di tutti quelli che la vivono dal di dentro. Arriva all’università per studiare agraria, non sa nemmeno lui, ma sente qualcosa di misterioso che lo attira e cambia facoltà; quel professore antipatico gli dovrà dire, spiegare che diventerà docente universitario di letteratura rinascimentale perché, dice: «È la passione! Lei, Stoner, è appassionato, non capisce?». Ma Stoner effettivamente non capisce, non sa dare bene un valore alla passione, alla spendibilità della sua passione, al suo potere (potere inteso anche come poter fare), cerca in maniera timida e silenziosa qualcosa dentro sé, una forma sconosciuta e questo lo spinge verso errori tragici e passioni strazianti, ardenti, e tuttavia dimesse.
Come docente universitario non utilizza mai, sembra non essere fatto per questo, il potere in maniera arbitraria, ma subisce quello degli altri docenti, senza difendersi. Forse, chissà, quel peccato originale, sentirsi, senza saperlo, un intruso, un fuori posto, un eterno principiante che ha meno diritto degli altri di stare al mondo apre uno spazio a un tipo di esistenza strana.
Perché non rispondi Stoner?! Perché non ti ribelli?! Il lettore spesso si chiede, e gli chiede, non rendendosi conto che per la maggior parte del tempo siamo come lui, più di lui, inermi: la rabbia probabilmente crea una sensazione di moto; le litigate, le parolacce, le braccia conserte, i vari vaffanculo sparati in aria come bengala per dire che siamo qui per dio! Abbandonati su un’isola infelice, ma anche noi subiamo allo stesso modo di Stoner. L’unica differenza tra noi e lui è il silenzio, un silenzio che consente di vedere lo stato delle cose, la verità. Stoner subisce le  scelte, spesso crudeli, degli altri, ma non si sbriciola. Soffre con la silenziosa intensità che, forse, con un po’ d’immaginazione, potremmo attribuire alle pietre, che se ne stanno ferme e sole chissà da quanto tempo mentre gli arbusti, come tutto il resto attorno, crescono, si flettono, emanano odore, vengono addirittura sfiorati dalle dita di qualche ragazza che passeggia.

Mentre scrivo, continua a frullarmi in testa un particolare insignificante che non riesco a scacciare. In un punto del libro si celebra un matrimonio tutt’altro che felice, che decreta anzi la chiusura del cerchio di un lungo tragitto d’infelicità sorda che accompagna Stoner per quasi tutto il romanzo. Questa data è il 12 dicembre. Cinque giorni prima, dice il narratore, i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor. Ma il 12 dicembre è anche la data di nascita di Flaubert. Non so se sia un indizio deliberatamente lasciato da Williams per suggerire al lettore in quale direzione guardare per sentire questo suo lavoro. Con Flaubert Williams ha poco in comune: la sua tenerezza è sconosciuta a Flaubert, non però l’infelicità che le relazioni, con l’andare del tempo, cominciano a liberare. Perché sia Stoner che la famiglia Bovary vivono dentro una società che poggia su tetri legami di potere e non di affetto; legami in cui l’intimità è sacrificata in nome di altre cose: miraggi, pulviscolo di altrove, crudeltà, e via di seguito; cose, in definitiva, che non possono che produrre un’esistenza emotivamente terribile. Ma la prosa di Williams, o meglio i gesti di Stoner sono colmi di una tenerezza, di un sentimento, di smarrimento lirico… come se abitasse tra le stelle, che Flaubert non mi pare abbia mai frequentato, nemmeno con la sua Felicitè di Un cœur simple o col suo Sant’Antonio furente. Un altro aspetto che mi pare Stoner personaggio condivida con Flaubert personaggio, più precisamente quello creato da Sartre nel suo L’idiota della famiglia (triste il fatto che questo libro sia fuori catalogo da più di vent’anni e nessuno si decida a ripubblicarlo), saggio maestoso e mastodontico dedicato all’opera e all’anima di Flaubert, ebbene, dicevo, un altro aspetto che mi pare condividano questi due personaggi è quello che Sartre definisce hebetude, ebetudine, le ebetudini nelle quali si perdeva il piccolo Gustave, l’idiota della famiglia, appunto: il vivere, cioè, come una cosa inanimata, perso nella propria fissità di sguardo e impenetrabili fantasie. Come se una vita fosse possibile solo al di fuori della realtà, fuori da quello che noi chiamiamo realtà: il traffico di cose per lo più penose; lo spostarsi da un posto all’altro come muli assonnati con lo sguardo di vecchi bluesman, progettare, odiare, sognare sogni scoloriti, e poi morire. A questa realtà non sembra voglia partecipare William Stoner che appare essere fatto di straniamento: non alienazione, ma straniamento, essere straniero (o forestiero, colui cioè che viene dalla foresta) nei quartieri della vita piccolo-borghese, incentrata su avarizia di emozioni, poca o niente generosità, passioni ricacciate dentro con tale forza da tramutarsiin varie forme d’isteria, di legami tossici, omicidi dell’anima, roba contorta, violenta, capace  di deformarti il cuore.

Ci sono due dialoghi soprattutto, centrali che consentono di aprire porte che danno la vista su l’essenza di Stoner. Il primo, a pagina 40 (edizione italiana), in una birreria, giovane assistente, Stoner assieme a due amici e colleghi chiacchiera. Il più sveglio dei tre parla della differenza tra la vita dentro l’università e quella fuori, e dice, in modo convincente, come loro si rifugino là dentro, perché altrimenti non saprebbero come e cosa vivere là fuori.
A Stoner questo dialogo rimarrà impresso e lo capirà più del lettore e più dell’altro amico che  sorride scanzonato mentre ascolta le parole che dicono della loro inadeguatezza. Quando, molto anni dopo, un maneggione, scaltro e cinico, protetto da un collega di Stoner, altrettanto maneggione, scaltro e cinico, tenterà di guadagnarsi il dottorato pur non avendone le qualità, non le conoscenze ma le qualità: «Sarebbe un disastro lasciarlo libero dentro una classe», dice Stoner, opponendosi con fermezza all’ingresso di questo giovanotto nell’università. E poi, con aria raramente decisa, citerà il discorso del loro comune amico Dave Masters:

«[…] L’università è come un ospizio, un rifugio dal mondo, per gli infelici, gli storpi. Ma non alludeva a quelli come Walker [il maneggione cinico e scaltro candidato al dottorato, ndr]. Dave avrebbe considerato Walker come… come il mondo esterno».

Questo giovanotto, Walker, appartiene alla realtà là fuori, è intriso di regole vigliacche, spietate, nutrite da un’ambizione rancorosa che nulla ha a che fare con la ricerca (parola intesa in senso largo, larghissimo).
Ovviamente Stoner perderà questa battaglia e la sua vita accademica, come quella famigliare, comincerà a somigliare per molti versi a un calvario. Il suo collega, capace di odiare con forza olimpionica, come certe persone sono capaci di amare, aprirà una vendetta permanente per punire questo sgarbo accademico. E Stoner avrà ormai chiaro in mente che la realtà, quella di fuori, sia bene tenerla fuori. Non riesce, e comincerà a vivere doppiamente al di fuori: fuori dalla realtà che tutti abitano e fuori dalla realtà dell’accademia. Fuori, straniero a vita. Incontrerà anche l’amore Stoner, fuori dal matrimonio. Katherine Driscoll, sua ex studentessa, affascinante, generosa, viva, forte, fuma un sacco e in un paio di occasioni dice “Accidenti!” in un modo che vien voglia d’innamorarti. Quando la storia d’amore verrà soppressa dalla ritorsione del suo collega, Stoner torna sulla dimensione di quel “di fuori” che pare essere la sola dimensione di scoperta:

«Era un mondo di penombra quello in cui vivevano e in cui portavano [Stoner e Miss Driscoll] la parte migliore di se stessi, e dopo un po’ di tempo il mondo esterno, in cui gli altri camminavano e parlavano, in cui c’erano cambiamenti e movimenti continui, finì col sembrargli falso e irreale» (243).
E ancora, le ultime, penultime parole tra Stoner e Katherine Driscoll:
“[….] Non sono le difficoltà che dovremmo attraversare e nemmeno l’eventuale perdita di ogni affetto. È la paura di distruggere noi stessi e tutto quello che facciamo.”
“Lo so”, disse Katherine.
“Perché noi, in fondo, apparteniamo al mondo; avremmo dovuto saperlo. E lo sapevamo, credo. Ma abbiamo dovuto nasconderci un po’, fingere un po’, per poter…”
[notare qui come in tutto il romanzo l’uso sublime dei puntini di sospensione] (249).

E allora? Tutto questo discorso per dire cosa? Per dire che per vivere la vita occorre stare di fuori dalla realtà, questa realtà. Che occorre essere un tantino ebeti, eccentrici se si vuole, come, giusto per fare un esempio, Albert Einstein. Ein-stein: una pietra.

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