“Sto bene è solo la fine del mondo” di Ignazio Tarantino
«Tutte le famiglie felici sono simili, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», recitava il celebre incipit, o forse è vero il contrario, ma Ignazio Tarantino, nel suo esordio Sto bene è solo la fine del mondo (Longanesi, 2013), racconta con molta efficacia la storia di come una famiglia è stata infelice, ora che, come dice la dedica, il tempo gliel’ha restituita.
Monopolitano di nascita e fiorentino d’adozione, l’autore, qui alla sua prima, convincente, prova letteraria, prende spunto da vicende autobiografiche per narrare la storia di Giuliano e della sua famiglia, una di quelle che con brutto calco dall’inglese si usa definire “disfunzionali”, con un padre distaccato e violento e una madre succube e fragile. Lui, ultimo di sei fratelli, è nato solo perché la madre Assunta si oppone all’interruzione della gravidanza e all’età di sei anni vede la vita domestica cambiare radicalmente. Quando due eleganti sconosciuti entrati in casa sua annunciano l’imminente fine del mondo e la possibilità di salvezza per chi fosse entrato nella “Società”. Si tratta dei Testimoni di Geova, ma le dinamiche sono simili a quelle di tanti gruppi fondamentalisti e sette religiose e parareligiose. Assunta, infatti, è rapita da questo messaggio ed entra attivamente e con convinzione a far parte della Società, trascinandosi dietro tutta la famiglia, con le iniziali resistenze, frutto di mero disinteresse, del capofamiglia, le cui violenze fisiche diventeranno minime di fronte a quelle psicologiche della madre.
Giuliano asseconda, con la curiosità e lo sguardo stupito e voglioso di conoscere di un bambino, i desideri della madre, che pure lo portano negli anni a una vita radicalmente diversa da quella dei suoi coetanei. Niente amicizie “impure”, niente feste, niente Natale, niente gite, niente contatti con la società reale che è fonte di ogni male, ma assemblee nella Sala del Regno a leggere le Scritture e seguire gli insegnamenti degli Anziani, per poi diffondere il messaggio porta a porta: è decisamente quello che l’autore definisce “un mondo a parte”.
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Giuliano si getta in questo mondo con fervore e impegno, crescendo nel frattempo e subendo le sollecitazioni del mondo esterno, dalle letture suggeritegli da un professore che lo stima al sorgere dell’amore per Sara, rapporto difficile e impossibile seguendo i dettami della società, ma sufficiente a minare le certezze di un adolescente inquieto che inizia la consueta fase di ribellione ai valori familiari. Così come drammatica è la scelta di rispettare le regole della Società quando si tratta di lasciar morire un figlio, o un fratello, pur di evitare una trasfusione di sangue, considerata impura, ancorché sufficiente a salvare una vita.
Ma tant’è, i percorsi del fanatismo sono lastricati di queste credenze ottuse con conseguenze tragiche. Dopo la prima parte del racconto arriva, quindi, la parabola di destrutturazione del personaggio, in cui è difficile non immedesimarsi, e delle sue convinzioni radicate, messe tutte in discussione fino all’abbandono di quei convincimenti e della famiglia, rinnegato come apostata e allontanato da madre e fratelli. In realtà, primo a mettere in dubbio certezze che poi verranno abbandonate anche da altri, se non dalla madre, con cui pure anni dopo Giuliano riuscirà a ristabilire un certo rapporto.
Scorre lungo i due binari tematici del fondamentalismo religioso, le dinamiche irrazionali delle sette e i meccanismi psicologici di chi crede ciecamente anche di fronte a palesi smentite, e della storia di una famiglia, con i suoi legami primordiali, gli amori incondizionati e i rancori sopiti, le esplosioni di odio e le paure di deludere, i legami spezzati e i fili riannodati, questo romanzo dalla lingua essenziale e senza orpelli, da cui è difficile staccarsi una volta iniziato, che sa raccontare con ironia e leggerezza una storia drammatica e inquietante, ambientata in un sud presunto arcaico e tradizionale, tra anni Ottanta e Novanta, conservando, in realtà, un respiro internazionale e modernissimo, se si pensa al dilagare dell’integralismo religioso – fa anche venire in mente le immagini di The Master, il recente film di Paul Thomas Anderson ispirato alle vicende di Scientology –, e una luce di speranza nel finale, quando Giuliano, insieme ai REM, canta It’s the end of the world as we know it, and I feel fine, e noi ci ritroviamo a cantarla insieme a lui.
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