“Stalin + Bianca” di Iacopo Barison
Stalin + Bianca (edito da Tunué, 2014, nella nuova collana di narrativa curata da Vanni Santoni) di Iacopo Barison comincia così: «Vorrei aggiungere che lo stadio è completamente vuoto. Gli orizzonti scompaiono, i riflettori puntati sul campo si spengono all’improvviso. Siamo giovani e soli, avvolti nel buio molecolare del tardo pomeriggio».
E mi è venuto da pensare a quel «Poi veniva la brutta stagione» con cui Hemingway approccia la narrazione di Festa mobile, senza dubbio tra i più efficaci inizi in media res che si ricordino.
Ora, non voglio dire che questo ragazzo di ventisei anni alle prese con la seconda fatica letteraria sia Hemingway, per carità, semmai che Barison conquisti subito qualche punto nei confronti del lettore grazie a un funzionale espediente. Ci troviamo senza preamboli nella testa di Stalin, un adolescente che non è mai felice e che sta per compiere diciotto anni, folti baffi (motivo principale del soprannome), una vespa per girare tra le vie degradate di un’imprecisata città e qualche problema di gestione della rabbia. Poi c’è il suo amore platonico Bianca, dolcissima, non vedente, appassionata di musica classica, «scrive poesie, è innamorata di un mondo che non ha mai visto». Va da sé che la prima parte del romanzo ci presenti i due protagonisti del titolo, tuttavia facendo sfilare anche i comprimari della storia in una carrellata che sa fermarsi su ognuno di loro: Jean (chiamato così per la somiglianza con l’attore francese Jean Gabin), custode di uno stadio che però fa il grosso del guadagno con lavori sporchi, dei quali Stalin è partecipe; una mamma quasi invisibile, relegata dietro messaggi affettuosi eppure in qualche modo distanti; infine il compagno della madre, ex raver che ora fa l’assicuratore e per il quale Stalin non nutre una gran simpatia.
È proprio un episodio legato a quest’ultimo che dà l’avvio alla seconda parte, una movimentata evoluzione on the road: Stalin, che già sente il bisogno impellente di fuggire dalla propria vita, trova il pretesto per andarsene davvero, perché ancora una volta ha perso il controllo, ma il problema è che stavolta ha colpito il patrigno; credendolo morto, si dà alla fuga, nella quale coinvolge anche Bianca. Diventa un viaggio tra città senza nome e una capitale da raggiungere, in un mondo alla deriva, un mondo che vive nell’autocommiserazione e nel disagio metropolitano, ed è un susseguirsi di quartieri grigi e quartieri morti, deserti, spacciatori di droghe e psicofarmaci a ogni angolo, fabbriche abbandonate e palazzi incompiuti, la neve, le rovine dei bombardamenti, le macerie di una chiesa, il museo del degrado ambientale.
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La forza dell’autore è quella di richiamare a scenari post-apocalittici senza dare riferimenti precisi, senza necessità di spiegare, basti solo sapere che si sono estinti gli arcobaleni. Il futuro prossimo è un posto pieno di contraddizioni, dove coesistono raffinati Veg Burger e cibi in scatola da consumare in strada, il biologico solo per i ricchi, il colosso Starbucks, elementi anacronistici come la carta da parati, la gente che ragiona in codici binari e indossa maschere antigas un po’ per moda e un po’ per protesta. «Sembra un’altra epoca. Un mondo senza coscienza storica, in cui tutto deve ancora succedere».
È un libro che si può collocare nel filone postmoderno, distopico per ambientazione e contesto sociale, basato su una storia nella quale si avvertono gli echi di Don DeLillo (Cosmopolis in particolare) e Cormac McCarthy (La strada). Lo stile di Barison è già maturo e in effetti molto americano, nel novero dei minimalisti, denso di dialoghi con taglio da sceneggiatura e con qualche tono da pulp. Eccede forse in pensieri didascalici e digressioni sociologiche, anche se ne nascono interessanti spunti di riflessione su possibili visioni del futuro. Stalin + Bianca è anche un’esplosione cinefila, alla quale prendono parte Truffaut, Godard, Jean Vigo e Dziga Vertov; si citano poi l’espressionismo tedesco e persino Godzilla. Il protagonista non dimentica mai di portare con sé la sua macchina da presa per firmare ciò che lo circonda, frammenti di realtà e di verità da montare insieme proprio alla maniera di Vertov (“Perché la videocamera?” gli chiedono. “Perché non ho una penna. È come tenere un diario di viaggio, con le immagini al posto delle parole”, risponde lui). Le pagine stesse del romanzo si muovono tra campi medi e campi lunghi, totali di paesaggi, persone in campo e fuoricampo. “Vorrei tornare indietro, quando i film finivano con un bacio”, dice poi, e rimpiange tempi che non ha mai vissuto, come il Woody Allen di Midnight in Paris. Infine i riferimenti letterari, Guerra e pace e La montagna incantata su tutti (tra parentesi voglio dire che condivido con Stalin la passione per i racconti di Maupassant), e quelli musicali, con What a wonderful world come colonna sonora (nella doppia versione, classica e rivisitata, di Louis Armstrong e Joey Ramone), che accompagnano la lettura di Stalin + Bianca.
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