“Splendore” di Margaret Mazzantini
Non è un romanzo sull'amore omosessuale. Splendore di Margaret Mazzantini (edito da Mondadori) non è neanche un romanzo d'amore. Forse non è neppure un romanzo. È un'indagine pseudofilosofica mascherata da memoriale: il protagonista narratore non affida la sua vita al pubblico, ma lo interroga sulla lotta violenta e primitiva tra l'essenza di una persona e la sua immagine sociale. L'orientamento sessuale è un espediente per mettere in scena gli opposti che si fronteggiano: Guido e Costantino, due bambini che diventano ragazzi e poi uomini insieme, agli antipodi per aspetto fisico, carattere, condizione sociale, si uniscono in un rapporto che ricongiunge due metà di una stessa persona, in bilico tra conformismo e libertà, tra reale e immaginario, tra la quieta normalità e la caduta nel gorgo delle ossessioni.
La storia tra i due ragazzi segue le tappe canoniche dell'attrazione amorosa, recitando un copione stereotipato nei gesti, nelle intenzioni, nelle scene: la gita scolastica, il campeggio, la lontananza imposta da fattori esterni, sono fondali su cui si muovono tutti gli adolescenti che prendono coscienza di se stessi, che nascono all'età adulta generati dai propri sogni. Ma quanto coraggio occorre per assumersi la responsabilità di una nuova creazione? Non esistono possibilità di correzione, quando si dà al mondo il proprio destino, ma Guido insegue la speranza di dare ancora la vita, senza dolore, a un essere più adeguato, più perfetto. D'altronde la ricostruzione è l'unico atto generativo, alternativo alla paternità acquisita, che gli sarà permesso tramite la scrittura: uno strumento chirurgico che biforca lo sguardo, trasmettendo lo scollamento tra il pensiero asettico e ripulito di sé e la diffidenza verso una natura che lo lascerà comunque incompleto e sterile.
C'è la volontà di sublimare la fisicità di questo rapporto ambivalente: la scrittura, così come il lavoro nel mondo dell'arte, è un surrogato fantasmatico che giustifica la mancanza di risolutezza per affermarsi nella propria individualità carnale. La riabilitazione infatti costeggia la strada convenzionale del matrimonio e si intride di moralità quasi religiosa: lo scandalo pubblico impone una confessione, ma le convenzioni sociali non muoiono, cambiano solo forma. L'uomo risorto dopo l'aggressione omofobica assume il carisma di un Cristo che dispensa assoluzioni per peccati minori, abbracciando una conversione anestetizzante. Una vaga simbologia cristiana si appropria degli elementi primordiali, trasformando l'acqua marina dell'incontro amoroso in una fonte battesimale, il fuoco impaziente della passione in un rogo da Santa Inquisizione, il lampo di stupore per l'inaspettato in una preghiera che uccide lo splendore terreno, riducendolo a un riflesso divino.
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Non c'è splendore in questa storia, non c'è una luce abbacinante che accechi il lettore e lo costringa a una nuova visione, il tocco è troppo superficiale per scuotere e lasciare tracce. Nonostante il tema pruriginoso, la carezza lieve dei pensieri di Guido sfiora ma non coinvolge. E qui sorge un sospetto, che l'intenzione di Margaret Mazzantini fosse quella di rappresentare con un filo di sarcasmo l'incapacità di “farsi capire, di scivolare dentro l'ignoto”: anziché immergersi nell'oscurità profonda dell'anima, si sceglie una meno temeraria nuotata controcorrente, limitandosi a imboccare la direzione opposta a quella della maggioranza. Se il pubblico ti acclama, se attende la tua voce per amplificare un'esperienza privata, come può lo scrittore non mettere nero su bianco il desiderio di rassicurazione di un'umanità sovrastata dagli stimoli e costretta a un aggiornamento incessante? Anche il filo della Storia si perde tra gli sconvolgimenti personali, non c'è tempo per un'analisi minuta e probabilmente non c'è neppure voglia di approfondire, come già sottolineato in questo blog a proposito di Mare al mattino. E una scrittrice popolare come la Mazzantini raccoglie e distilla l'umore generale di chi assiste allo spettacolo e partecipa cantilenando luoghi comuni, di chi plasma un cervello doppio per scovare il marcio e poi camuffarlo, di chi vorrebbe conoscere non più di quel tanto che basta per seguire una conversazione senza intervenire. Manca la pienezza di un respiro diaframmatico, la liberazione dall'autocontrollo di pensieri, reazioni e scrittura per sottrarsi a un vuoto nascosto dietro le quinte.
Cosa ci può dunque trascinare verso questo libro, tenendoci al suo cospetto fino alla trecentesima pagina? Una verifica della propria assuefazione agli ambienti reali e psichici confortanti: se cerchiamo la scorrevolezza di una pianura, interrotta da dosati colpi calibrati di scena, termineremo il libro e passeremo alla prossima lettura, ben accovacciati nella nostra tana. Se invece ci ostineremo, un capitolo dopo l'altro, a scovare lo splendore preannunciato, capiremo che non ci bastano le parole edulcorate e i gesti politicamente corretti, pur drammatici e apparentemente coraggiosi. Se il destino di ciascuno è far risplendere la propria unicità, come dichiarato dall'autrice in un'intervista, ciascun lettore può decidere se accenderla flebilmente, assorbendo la levigata compostezza di un racconto come Splendore, oppure innescare una miccia e prepararsi a qualsiasi fiammata.
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