“Spiegazione degli uccelli” di António Lobo Antunes
D'accordo, per i lettori italiani sarà sicuramente un falso problema, ma sappiate che in Portogallo sta diventando difficile, addirittura quasi impossibile, parlare di un grande scrittore come António Lobo Antunes senza cadere nella trappola ciclistica dell'eterno secondo: eterno rivale di Saramago, eterno candidato al Nobel mai vinto e, più recentemente, perfino al premio Principe delle Asturie, attribuito a Leonard Cohen. Lobo Antunes si sta “bartalizzando”, e il “naso triste come una salita” non gli manca. Responsabile di tale trappola è in buona parte lo stesso scrittore e il suo ufficio stampa. Ogni etichetta, ogni medaglietta, anche d'argento, serve a far notizia e a far girare il nome. La rivista letteraria «Ler», per esempio, non fa passare un'intervista a un prestigioso intellettuale straniero senza domandargli se vuole più bene a mamma o a papà, a Saramago o a Lobo Antunes. Per la cronaca, pare che Harold Bloom preferisca il primo, George Steiner il secondo. Fate voi.
Detto questo, proviamo a parlare di Lobo Antunes come merita, cioè come di uno dei migliori scrittori emersi negli ultimi decenni in Portogallo (e potremmo dire in Europa, facendo la figura di chi ha percorso in souplesse tutto il panorama letterario continentale, dagli Urali a Cabo da Roca). Sin dall'esordio nel 1979 – con la memoria della guerra coloniale, a cui partecipò, ancora fresca e bruciante – la sua opera è un'immersione in quella temperie culturale novecentesca che ha usato la scrittura per sondare l'inconscio e agganciarlo alla Storia, raccontando le ferite private e collettive di un popolo di disadattati che va ben oltre i confini nazionali. Una buona occasione per scoprirlo, o riscoprirlo, potrebbe essere la sua più recente pubblicazione italiana, che pesca fra i primi titoli rispolverando un eccellente Lobo Antunes d'annata (1981): “Spiegazione degli uccelli” (Feltrinelli 2010, trad. di V. Martinetto).
Anche qui, come in tanti altri libri dell'autore, c'è un reduce, Rui S., ma la sua non è più una guerra coloniale, è una guerra coniugale. L'altro, il nemico, è a portata di mano e di scendiletto. “Si odiavano al fuoco lento e amaro delle coppie”, dice il narratore. O almeno una delle voci del romanzo, perché si passa spesso dal discorso indiretto libero al flusso di coscienza puro, dalla terza alla prima e alla seconda persona, quel tu generico cui il protagonista si rivolge spesso a posteriori, rincorrendo, fuori tempo massimo, un dialogo con un interlocutore che guarda altrove, assente anche quando gli siede accanto. Un tu che quasi sempre è una donna, una moglie, sia essa la prima o la seconda. Monologo di marito che si arrovella in cerca del momento in cui l'amore muore e si degrada in disprezzo.
Oltre a un divorzo alle spalle e a un nuovo rapporto in fase calante, Rui ha genitori separati, relazioni familiari tese, suoceri scettici, una madre con cui non riesce a scambiare tenerezze neanche in punto di morte, un padre distante a cui, da piccolo, lui chiedeva che gli spiegasse il volo degli uccelli. I piani temporali del ricordo si moltiplicano e si accavallano, aggiungendo ogni volta dettagli nuovi a una narrazione che si avvita su se stessa, che ritorna sui luoghi dei delitti, cioè degli errori di tutta una vita, ogni volta ripresentandoli sotto una luce diversa, modulata dall'azione centrifuga della narrativa. Lobo Antunes e questo suo romanzo, fra gli altri, rappresentano forse uno dei capitoli più belli della letteratura post-faulkneriana. Viene in mente Jorge de Sena, carismatico intellettuale del secolo scorso, che nell'introduzione a una delle prime traduzioni di Faulkner in portoghese difendeva quella scrittura così densa dall'accusa di vuoto gongorismo. È una scrittura faticosa, magmatica, in quanto vera esperienza gnoseologica. Anche in questo suo degno erede lusitano c'è tutta un'infallibile progressione interna che cresce e si accresce caoticamente, per poi riordinare ogni elemento di questa cosmogonia portatile, siano essi genitori o consorti, vicini di casa o giornalai storpi, comprimari e figuranti in una Lisbona sempre opaca e cupa, oppure su in provincia, ad Aveiro, dove il protagonista finirà per uccidersi, incapace di armonizzare gli opposti di un passato tronfio e bigotto, a cui comunque patologicamente appartiene, e un futuro riscatto nel quale ha smesso di credere.
Questa polarità irrisolta, storica e al tempo stesso mitica, si incarna nelle due mogli: borghese e vanesia l'una, proletaria e intellettuale l'altra. Così diverse eppure così simili, perché viste sempre con gli occhi dell'uomo eternamente condannato alla superiorità o all'inferiorità, mai uomo alla pari, sempre au pair boy in appartamenti altrui, pieni di libri o delle immancabili, gozzaniane, buone cose di pessimo gusto: ritratti ovali, cani di porcellana, sancho panza di gesso... E nelle pieghe di questa realtà in vetrina, il buio. Un buio che fa paura, ma dà anche ristoro. “C'è sempre una parte di notte nascosta all'interno degli alberi, […] una solida frazione impermeabile d'ombra che nessun sole penetra, il nucleo di tenebra che gli uccelli, nel pomeriggio, abitano”.
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