Speciale Campiello Giovani – Intervista a Carmelita Noemi Zappalà
Carmelita Noemi Zappalà, diciannovenne originaria di Catania ma trasferitasi per studio a Londra, è uno dei cinque finalisti al Premio Campiello Giovani 2014, insieme a Chiara Di Sante, Daniele Comunale, Deborah Osto e Mariachiara Boldrini. Una ragazza che, attraverso i suoi versi e le sue parole, lascia trasparire la sua giovane età, il suo mondo poco più che adolescenziale, con tutto il corredo di problemi a esso collegati: anoressia, bulimia, bullismo, ansia, isolamento volontario che nel caso della Zappalà hanno portato alla nascita di una stella.
La Zappalà è entrata in contatto con persone che vivevano il tormento legato alla patologia medica dei disturbi alimentari e direttamente ha vissuto il problema sociale del bullismo. Il primo caso l’ha spinta a indagare, conoscere, entrare più a fondo e scandagliare il problema per poterlo poi sapientemente raccontare, mentre nel secondo caso si è sentita braccata al punto da preferire rimanersene da sola, rintanata tra i suoi libri. Da una situazione scomoda e negativa ha saputo trarre il meglio, sfruttando tutto il tempo a disposizione per leggere, leggere e ancora leggere fino al momento in cui ciò non le è bastato più e ha cominciato a desiderare di raccontare, di tirare fuori i mille pensieri che intanto si erano generati. Sono nate così delle storie, profonde, intense, sentite… storie di vita, tra cui Corpi di carta, opera con cui Carmelita Noemi Zappalà è stata scelta tra i cinque finalisti al Campiello Giovani 2014.
Corpi di carta è un racconto d’amore ma è soprattutto la narrazione di due vite che si intrecciano, si scontrano, si confrontano. Un lui e una lei che rappresentano anche le voci narranti, lasciate volutamente anonime dall’autrice per evidenziare il fatto che potrebbero essere chiunque, che sono chiunque… «non puoi salvare un altro essere umano se quest’ultimo non vuole essere salvato – e se non vuole salvarsi a sua volta» è il messaggio che vuole lanciare la Zappalà con il suo racconto.
Per conoscere meglio Carmelita Noemi Zappalà e il suo Corpi di carta le abbiamo rivolto alcune domande.
Partiamo dal titolo del racconto: Corpi di carta. Leggendo i tuoi scritti e ascoltando le tue parole sono sicura che l’hai scelto per un motivo ben preciso. Ti va di spiegarcelo?
Il titolo del racconto si riferisce direttamente a una riflessione che fa la protagonista a un certo punto della narrazione, durante un dialogo: cioè che, appunto, siamo tutti dei “corpi” che fin troppo spesso, proprio come carta, si lasciano utilizzare e poi buttare via da altre persone. È un pensiero che permea tutto il racconto, che perseguita continuamente la ragazza fin dalla prima pagina, e che ho avuto modo di applicare anche a me stessa e alle mie esperienze. Credo che sia capitato a tutti, comunque, a un certo punto della propria vita, di essere stati utilizzati da qualcun altro solo per essere poi buttati via – e di aver utilizzato altri, inconsciamente o meno, a propria volta. È come quando continui a cancellare qualcosa scritto a matita su un foglio, ancora e ancora, fino a rovinarlo – alcune volte fino a strapparlo. Più ci capita di essere utilizzati, più diventiamo fragili. Dovremmo tenere di più ai sentimenti altrui, e parlo anche per me stessa, visto che spesso e volentieri faccio questo errore.
A diciotto anni hai spopolato sul web con la tua pagina social per le frasi intense, profonde, particolari che condividevi con tutti e che ti hanno portato in brevissimo tempo ad acquistare una certa notorietà. Hai diciannove anni e sei finalista al Premio Campiello Giovani 2014 con un racconto in cui affronti tematiche difficili con lo spirito di una teenager e la maturità di uno scrittore navigato. È evidente che confermi la regola che vuole un bravo scrittore preparato, nel senso che deve aver letto tanto ma proprio tanto, e al contempo attento alla realtà in cui vive o in cui decide di ambientare i suoi scritti. Se ti guardi indietro cosa vedi?
È strano leggere il termine “notorietà” riferito a me, visto che non mi sento affatto “nota” o “popolare”. Per me qualcuno è noto quando viene riconosciuto per strada, e ancora non mi è successo (e dubito mi succederà, se è per questo, però non si sa mai nella vita, giusto?). È anche strano leggere “maturità di uno scrittore navigato”… per quanto sia lusinghiero, e per quanto mi faccia piacere dal più profondo del cuore, non riesco ad associare a me alla parola “scrittore”. Addirittura navigato, o maturo! Certe volte faccio qualcosa e riesco solo a pensare che, per alcune cose, io sia mentalmente rimasta più o meno ai dodici anni. In ogni caso, sto divagando. Se mi guardo indietro, vedo solo una ragazzina di sedici anni che, come avevano fatto già molte altre persone, decide di aprire una pagina Facebook per condividere quello che scrive, e che, per qualche bizzarro miracolo, si ritrova a venire apprezzata da un po’ di sconosciuti. Anche se ora rileggo ciò che scrivevo e mi vergogno un po’, sono incredibilmente grata per tutti coloro che almeno una volta hanno apprezzato la mia scrittura e che mi hanno incoraggiato a continuare. Ho chiuso la mia vecchia pagina ormai da tempo, ma con alcune di queste persone sono più o meno in contatto ancora oggi, e con altri ho sviluppato addirittura legami d’amicizia. Io mi limitavo a scrivere ciò che provavo, o avevo provato, eppure c’era chi mi diceva “grazie” perché in qualche modo avevo espresso ciò che provavano anche loro. Credo sia questa, ancora oggi, la cosa più importante. Anche se non ho mai scritto pensando agli altri – a cosa sarebbe potuto piacere o no –, è comunque incredibile. Mi commuovo, letteralmente, ogni volta che qualcuno mi ringrazia perché ho scritto qualcosa che lo ha toccato. Non m’interessa nient’altro, finché riesco a fare questo, finché riesco a scrivere principalmente per me stessa e allo stesso tempo, sempre per qualche bizzarro miracolo, per qualcun altro.
E se guardi avanti?
Onestamente, cerco di non pensarci troppo. Sono una persona fin troppo ansiosa, che tende a entrare nel panico per qualunque cosa, e il solo riferimento al futuro mi fa venire voglia di chiudermi in camera mia e buttare via la chiave. Ho diciannove anni. Sono in quella fase della vita in cui ormai sei fuori dalle superiori e devi affacciarti in un mondo, quello degli adulti, che sembrava lontanissimo fino al giorno degli Esami di Stato (ecco, lì – è stato allora che ho capito che il “futuro” era arrivato), e che fa sempre più paura ogni giorno che passa. Perlomeno, così la vivo io. Come ho detto, tendo a entrare nel panico.
Non nego che ormai da anni nutro la speranza di essere pubblicata, perché non riesco a vedermi in nient’altro; l’ho, però, sempre trattata più come un sogno che come una possibilità reale, perché so quanto sia difficile “farcela” in questo campo. Innanzitutto, voglio laurearmi, trovare un lavoro, e scrivere qualcosa di più lungo di un racconto (e un po’ ci sto già lavorando, università permettendo), anche se dovesse rimanere in un cassetto. Voglio rendere fieri di me i miei genitori. Voglio stare bene. Ecco, se guardo avanti, spero di vedere una ragazza che sta bene con se stessa e con gli altri. Poi viene tutto il resto.
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Ti sei avvicinata alla scrittura scrivendo fanfiction. Perché? Voglio dire cosa ti attraeva in questo genere letterario?
Perché era semplice, divertente, e riusciva a svagarmi (che era una delle cose che volevo ottenere). Avevo dodici anni e passavo già il tempo libero a leggere fanfiction, quindi un giorno mi sono detta “Perché non provare a scriverne una?”. Era divertente prendere personaggi di opere già esistenti e farli agire a modo mio, spesso catapultandoli in realtà differenti da quelle originarie. Scrivo ancora fanfiction, ma all’epoca, a differenza di quanto faccia adesso, non m’impegnavo molto, di certo non curavo lo stile (non ne avevo nemmeno uno), infilavo delle faccine qua e là durante la narrazione, la caratterizzazione dei personaggi e la trama erano l’ultimo dei miei pensieri. Un disastro, insomma, un vero disastro. Però mi piaceva e mi faceva stare bene, e in fin dei conti, allora, questo era l’importante.
Spero che ciò che scrissi in quel periodo, comunque, sia magicamente sfuggito alla regola secondo cui “niente si cancella mai veramente da internet”, e sia quindi scomparso senza lasciare tracce. Non vorrei mai, mai, mai rileggerlo oggi. Sarebbe imbarazzante.
Quali sono gli autori, classici o contemporanei, che maggiormente hanno segnato il tuo percorso letterario?
Ho cominciato la mia “carriera” da lettrice a dieci anni, con la saga di Harry Potter di J.K. Rowling, scrittrice a cui devo un sacco di cose – la passione per la lettura in primis, seguita da tutta una seria di insegnamenti che porto con me ancora oggi –, quindi a lei spetta una menzione d’onore. Ci sono molti altri autori, tuttavia, che si possano ritrovare o meno nella mia scrittura, che mio hanno influenzata tantissimo nel corso degli anni: Chuck Palahniuk, Jonathan Safran Foer, George Orwell, per citarne alcuni.
Sei stata una vittima del bullismo e sei riuscita a venirne fuori anche grazie ai libri che ti hanno fatto compagnia e non solo, ti hanno dato la possibilità di una scelta. Hai trovato la forza dentro di te. Che consiglio senti di dare a chi magari sta affrontando proprio adesso questo problema?
Anche se ne ho sofferto molto, mi rendo conto che a me è andata meglio che a molti altri. Non sono mai arrivati a picchiarmi, le angherie si limitavano a insulti sul mio fisico – sono sempre stata sovrappeso – o sulla mia “bruttezza” (si può dire?) in generale. Ne ho sempre sofferto tanto, comunque, forse pure ingigantendo le cose, perché non sono mai stata particolarmente combattiva e tendevo a pensare e ripensare a ciò che mi dicevano i miei coetanei, tenendo tutto dentro di me. A chi ne sta soffrendo oggi, vorrei dire soltanto che alla fine, anche se sembra impossibile, finisce tutto. Finiscono gli insulti, finiscono le prese in giro, finisce l’ansia di andare a scuola ed essere derisi ancora una volta. Si cresce, si va avanti. Lo so che è dura, so che certe volte sembra impossibile riuscire a superare un’altra giornata passata così, ma dovete farcela. Dovete convincervi di valere abbastanza da andare avanti e, soprattutto, da meritare di volervi bene. Avrete sicuramente dei giorni in cui non avrete altra voglia che rimanere in casa e non dover incontrare chi vi fa del male, avrete sicuramente dei giorni in cui vi sembrerà impossibile riuscire a sopportare oltre, avrete sicuramente dei giorni in cui vi convincerete che forse “gli altri” hanno ragione, che siete solo dei perdenti, che non meritate nulla. È comprensibile. È umano. Va bene avere dei momenti di sconforto, e non dovete sentirvi ancora peggio perché non siete “coraggiosi” o “forti” o cose del genere. Ognuno, di fronte a queste cose, reagisce come può. Però voglio che in quei giorni, almeno in uno di quei giorni, riusciate a trovare la voglia di uscire da casa, tornare a scuola, affrontare la giornata. Dovete capire che meritate di combattere per voi stessi – per stare bene, per imparare a ignorare chi vi fa del male. Non lasciatevi andare, non lasciate prevalere lo sconforto, perché non sarà per sempre. Non è mai per sempre. Sarà difficile, sarà un percorso lungo, ma alla fine, come ho già detto, finisce tutto. Crescerete e cambierete ambiente e amicizie, e allora andrà meglio. Fino ad allora, tenete duro. Andrà tutto bene, prima o poi. Con me è stato così. Vi auguro tutto il bene del mondo.
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