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Speciale Campiello Giovani 2016 – Intervista a Martina Pastori

Speciale Campiello Giovani 2016 – Intervista a Martina PastoriMartina Pastori è entrata a far parte della cinquina finalista al Premio Campiello Giovani grazie a Le famiglie degli altri, racconto che esplora il delicato tema delle dinamiche famigliari. Per Martina la scrittura è una valvola di sfogo, un modo per mettere in ordine i suoi pensieri: «lettrice onnivora», il suo romanzo preferito resta comunque I miserabili di Victor Hugo, anche se nella sua personale libreria questa autrice inserisce, tra gli altri, anche Edgar Lee Masters, Gustave Flaubert, Margaret Mazzantini e Italo Calvino. Le abbiamo fatto qualche domanda sul suo racconto, le sue passioni e i suoi progetti futuri. Ecco cosa ci ha risposto.

 

Martina, al centro del tuo racconto troviamo la famiglia. Un tema importante e particolarmente attuale, vista anche la recente legge sulle unioni civili. Se dovessi descrivere con parole tue il significato di “famiglia”, cosa risponderesti?

Domanda impegnativa! Famiglia, per me, è il posto dove più che in ogni altro ci si può permettere di essere sé stessi, quel posto dove sei libero di andartene in giro a piedi scalzi quando ti pare e piace, il guscio di noce in cui rintanarsi dopo una giornata di vita vissuta. Famiglia è un grumo di affetti interdipendenti, di persone che non possono vivere le une senza le altre, che non vogliono nemmeno provare a vivere le une senza le altre, perché si bastano, si consolano, si spronano e si tengono compagnia vicendevolmente. Famiglia è abitudine e routine, ma anche avventura e sete di sperimentare gli uni con gli altri, è reciproco supporto, famiglia è un pranzo di Natale tutti insieme appassionatamente, famiglia è una gita fuori porta e una stanca domenica pomeriggio trascorsa a far niente sul divano, tra le pieghe di una coperta. Famiglia è la tua prima destinazione quando hai qualcosa di bello da sbandierare al mondo, ma anche quando, dopo una sconfitta, te ne torni a casa con gli occhi bassi. Famiglia è, in una parola, amore, e amore in tutte le sue forme, almeno dal mio punto di vista: che ci siano una madre e un padre, o due madri o due padri, cinque figli o nessuno. Famiglia è casa, una casa che ci progettiamo noi sin dalle fondamenta, a nostro piacimento, per starci comodi tutta la vita.

 

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«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è, invece, infelice a modo suo»: sei d'accordo?

No, non sono d‘accordo. Come ho scritto anche nel racconto, la felicità la si conquista giorno per giorno, a denti stretti, con fatica: io penso che non ci sia una famiglia uguale a un’altra, che tutte le famiglie felici e infelici siano felici e infelici a modo loro, a costo di sacrifici e rinunce, se necessario. Certo, c’è anche da dire questo: è possibile classificare una famiglia come completamente, irrimediabilmente, incondizionatamente felice, o infelice? Sarebbe una mossa a dir poco azzardata; la vita è fatta di alti e bassi, un giorno ci sembra di sfiorare le nuvole con un dito e l’indomani, magari, ci si ritrova a strisciare lungo il grigiore di un’esistenza che ci sta stretta. Lo stesso accade in famiglia, un terreno più che mai fertile per l’insorgere di instabilità: anzi, l’equilibrio familiare è forse ancor più delicato, perché quando le cose non vanno come dovrebbero non è solo la nostra, di serenità, a essere messa a repentaglio, ma anche quella degli altri, delle persone a noi più care al mondo. La famiglia felice non esiste; né tantomeno quella perfetta. Ogni famiglia è imperfetta a modo suo, nella gioia, nella noia, nel dolore. Anche Gemma, uno dei personaggi del mio racconto, si è resa conto dell’estrema soggettività di ogni singola situazione familiare, di come ciascun nucleo di affetti rappresenti una situazione a sé stante nella sua particolarità…

«Siamo la famiglia perfetta, io, Sam e Lisa: quella che sorride ai passanti da un cartellone al margine della strada, pubblicizzando un dentifricio alla menta. Siamo quelli col frigo sempre pieno, e un dolce sempre in forno; quelli che non scordano mai un compleanno, che la notte di Natale lasciano sul balcone un piatto di dolci per le renne; quelli che, a primavera, s’arrampicano fin sotto la grondaia, per sbirciare il solito nido di rondini. Già, la famiglia perfetta… O quasi».

 

Sappiamo che ti piace viaggiare e che un passato soggiorno in Kenya ha contribuito ad accentuare la tua passione per la scrittura. In che modo?

Mi trovavo a Malindi, in un limbo tra la civiltà e il niente più spietato. Lì ho conosciuto una bambina di nome Lucy, avrà avuto cinque o sei anni in meno di me; un pomeriggio come tanti altri, Lucy e io ce ne stavamo sedute su un muricciolo di cemento, a respirare la polvere, in silenzio. Avremmo voluto dirci mille cose, ma non sapevamo come, perché lei non parlava la mia lingua e io, manco a dirlo, non parlavo la sua. Me la ricordo bene, quella bambina: aveva le guance imbrattate, tanta voglia di ridere, e i piedi callosi di chi se ne va in giro senza scarpe. Che poi, a voler essere onesti, non sono nemmeno sicura che quello, Lucy, fosse il suo vero nome; d’altra parte, ho come l’impressione che i nomi contino poco o nulla, in quell’angolo arido di Africa. Quel pomeriggio, Lucy teneva la sua mano nella mia, col palmo all’insù, e continuava a ripetermi “biscuit, biscuit”, ma io facevo finta di non capire, perché non ne avevo, di biscotti, non avevo cibo con me, e mi veniva da piangere. L’unica cosa che avevo era una penna – chissà perché, poi; e allora ho cominciato a disegnarle sulla pelle ghirigori, fiorellini, casette.

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Speciale Campiello Giovani 2016 – Intervista a Martina PastoriDi tanto in tanto gli occhi di Lucy s’illuminavano. Sembrava che niente contasse più, quando guardavi quegli occhi, perché inghiottivano la miseria, e ti lasciavano un senso spugnoso d’inadeguatezza in mezzo al petto. L’unica cosa che Lucy possedeva era il suo sorriso, ed è stato quel sorriso bianco a farmi venire più che mai voglia di scrivere. Ancora oggi, di tanto in tanto, penso a quella bambina, alla sua vita senza eroi, alla felicità struggente che, malgrado tutto, le leggevi in faccia, e spero che non abbia mai smesso di esserlo, felice, nemmeno per un istante. Tutto quello che mi resta di lei sono i ricordi, un paio di fotografie e il racconto che le ho dedicato al ritorno da quel viaggio in Kenya. L’ho intitolato Mal d’Africa, perché credo che la sensazione che s’impossessa di me quando ripenso a Lucy sia nostalgia bella e buona, anche se è stato meno di un attimo, anche se io e quella bambina non abbiamo condiviso che qualche istante, prima di tornare ciascuna alla vita che ci è stata destinata.

 

Quali saranno le tue prossime mete? In particolare, c'è un luogo dove ti piacerebbe ambientare un tuo racconto o, perché no?, pensando in grande, un romanzo?

Ho sempre sognato di poter visitare la Thailandia, un giorno. E, magari, di approfondire la mia conoscenza degli Stati Uniti… Pensando in grande, però, se avessi la possibilità di scrivere un romanzo mi piacerebbe ambientarlo in India, anche se non ci sono mai stata. Perché proprio in India? Mi ha sempre affascinato, con le sue tradizioni, i suoi colori, la sua gente. Credo che il merito sia da attribuire a uno dei più grandi fotografi dei nostri giorni, Steve McCurry, che con la sua sensibilità, le sue inquadrature mozzafiato e i suoi ritratti spettacolari – molti dei quali scattati appunto in India – ha fatto nascere in me questa passione per l’esotico. Certo, personalmente trovo che anche molte città italiane si prestino a fare da sfondo a una storia ben architettata; Milano e Venezia, per esempio. Dovendo scegliere, tra le due privilegerei Milano, perché, essendo di casa, la conosco meglio…

 

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So che l'anno prossimo hai intenzione di iscriverti a Lettere Moderne e, in seguito, di intraprendere la strada del giornalismo o dell'editoria. Non ti piacerebbe proseguire nella scrittura, soprattutto dopo questa esperienza del Campiello Giovani?

Certo che sì! Non ho intenzione di abbandonare la scrittura, non credo che ci riuscirei. Ancora prima che un modo per cucire insieme storie e comunicare con gli altri, scrivere è per me qualcosa di personale, un’attività a cui mi dedico per mettere ordine tra i pensieri, per stare meglio: a volte diventa una vera e propria necessità. Iscrivermi a Lettere Moderne e intraprendere la via del giornalismo o quella dell’editoria è un tentativo di continuare a fare quello che mi piace, nella speranza di potermici un giorno guadagnare da vivere… Ora come ora, indipendentemente da quello che mi riserverà il futuro, la scrittura è un tassello molto importante della mia vita, una passione a cui non mi sento di rinunciare e che mi impegnerò a coltivare. E questa fantastica esperienza al Campiello Giovani mi sprona a inseguire questo mio sogno con più grinta ed entusiasmo. D’altronde, se non ci crediamo noi, ai nostri sogni, chi altro lo farà?

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