Speciale Campiello Giovani 2016 – Intervista a Carmelita Noemi Zappalà
A 21 anni Carmelita Noemi Zappalà decide di partecipare di nuovo al Premio Campiello Giovani e, per la seconda volta, il suo racconto viene scelto tra i finalisti. Re di cuori è stato definito dalla giuria "potente" come il tema che tratta: l'omosessualità. Un argomento di stretta attualità in Italia e su cui l'autrice, seppur giovane, ha molto di serio e realistico da dire. Ne abbiamo parlato in un'intervista.
Hai 21 anni. È la seconda volta che partecipi al Campiello Giovani e sei di nuovo tra i finalisti. Cosa è successo, artisticamente parlando, in questi due anni?
Credo che il mio stile sia cambiato. Sono cambiate un sacco di cose nella mia vita e, di conseguenza, anche il mio modo di scrivere e raccontare. In generale, nonostante il tema e il tono di questo racconto in particolare, tendo a scrivere storie meno tristi. Non che abbia scritto granché, a causa degli impegni universitari. La ragione per cui ho deciso di tornare a un clima di tristezza specificatamente per Re di Cuori è perché il tema trattato, nel modo in cui ho deciso di trattarlo, ne aveva bisogno.
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In Corpi di carta, finalista al Campiello Giovani 2014, affrontavi il difficile tema dei disturbi alimentari molto diffuso, purtroppo, tra giovani e giovanissimi. Con Re di cuori hai coraggiosamente deciso di parlare di un tema altrettanto delicato: l'omosessualità. Scrivere per te rappresenta più una sfida o una liberazione?
Be', onestamente, sono entrambi temi che mi hanno toccata, o mi toccano, molto da vicino. Qualche settimana fa stavo facendo un'intervista per la mia tesi, e l'intervistata (un'autrice) ha detto che, secondo lei, è inevitabile che gli scrittori mettano un po' di sé in ciò che scrivono, inconsciamente o meno. Io mi trovo a concordare, almeno per quanto riguarda una buona parte dei casi. Nel mio caso, in particolare, sfida e liberazione vanno insieme. La sfida è tirare fuori, tramite la scrittura, ciò che magari non riesco a esprimere o a raccontare altrimenti. Dico sempre che scrivo perché non sono brava con le parole. La sfida, per me, è liberarsi. L'unica differenza, tra il 2014 e quest'anno, è che adesso liberarsi è molto più facile.
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Hai dichiarato che il tuo racconto è anche una doppia critica all'Italia. In che senso?
Da una parte, è una critica al modo di fare del Sud Italia (o, perlomeno, siciliano) del classico “pettegolezzo da giardino”, quello che noi chiamiamo cuttigghio. Il protagonista non muore suicida, ma chi partecipa al funerale, e i loro conoscenti, e i conoscenti dei loro conoscenti, mettono su una rete di pettegolezzi, bugie e supposizioni basate sulla loro percezione del protagonista che alla fine costruisce una realtà fittizia che serve puramente a saziare la loro curiosità e il loro modo di vedere il mondo. Era omosessuale, quindi si è suicidato. I particolari che i personaggi citano – il modo in cui si sarebbe suicidato, il ritrovamento del corpo da parte del fidanzato – sono tutti inventati di sana pianta per passaparola.
La mia seconda critica è per l'Italia in generale. È il 2016. Per mesi, ho sentito ripetere affermazioni così assurde e ignoranti che avrei preferito non poter vedere e sentire. Che l'omosessualità è “contro natura”, per esempio. Abbiamo dovuto ascoltare i nostri politici – coloro che dovrebbero garantire pari diritti a tutti – denigrare la comunità LGBTQ+ giorno dopo giorno, mettere in chiaro che esistono italiani di serie a e di serie b, abbiamo dovuto vedere la legge sulle unioni civili diventare la versione annacquata di ciò che era perché, per dirne una, “i bambini non si toccano”. Non sto nemmeno qui a commentare le schifezze che ho letto in giro per il web, mascherate come il frutto della libertà d'espressione.
Critico l'Italia perché c'è un sacco di strada da fare. Sto scrivendo queste risposte poche ore dopo il sì alla camera, l'11 maggio 2016. Nutro la speranza che questo non sia solo un traguardo, ma un punto di partenza. (Sto riguardando le risposte quasi una settimana dopo: una parte dei nostri politici dice che vuole il referendum abrogativo. Che amarezza).
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Il protagonista del tuo racconto muore a seguito di un incidente, ma per i suoi compaesani sarà un suicidio causato dalla sua omosessualità e dalle sue fragilità. Perché hai voluto mettere in evidenza proprio quest’aspetto?
Il protagonista di Re di Cuori non si suicida. Nella prima parte del racconto, la gente del suo paesino spettegola sulla sua morte, e a poco a poco le bugie e le supposizioni si sovrappongono le une alle altre, fino mettere assieme la storia del suicidio. Cito l'interludio, in cui è il protagonista a parlare: «Hai giocato a sette e mezzo prima, no? Ogni carta vale quanto il suo valore numerico, tranne le figure, che valgono mezzo punto, e il re di denari. Il re di denari viene chiamato ‘matta’ ed è l’unica carta che assume il valore che desidera il giocatore che la pesca. Il re di denari non ha valore, se non quello che ogni persona gli attribuisce a suo piacimento. [...]».
Lui sapeva benissimo cosa pensavano di lui i suoi compaesani. Al suo funerale, per “vincere la mano” (per soddisfare, appunto, la loro visione della realtà) questi ultimi mettono insieme un puzzle sulla sua morte utilizzando i pezzi a loro disposizione – la sua omosessualità, il rapporto distrutto coi genitori – e, con un po' di malignità, ipotizzano che si sia suicidato; così ne parlano tra di loro, lo giudicano, lo dipingono come più gli fa comodo, creando una loro versione degli eventi – una loro realtà alternativa che soddisfa preconcetti già esistenti. Così lui diventa la loro matta.
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Nella seconda parte, invece, quando è il fidanzato/narratore a parlare, si capisce che il protagonista non si vergognava affatto del suo orientamento sessuale. Il narratore ricorda, ad un certo punto, una cosa che lui gli aveva detto: «Avevo diciassette anni ed ero un codardo egoista. Non ti saresti mai innamorato di me. Ora non sono più quella persona. Non ho più vergogna di chi sono. Non sono più arrabbiato». Poi il narratore riporta alla mente la sera in cui è morto: «[Ricordo] la voce del poliziotto che mi dice “I’m sorry,”dopo avermi chiamato per avvertirmi del tuo incidente».
Il protagonista non è morto suicida. È morto in un banale incidente stradale. Il protagonista del racconto, a quel punto della sua vita, era perfettamente a suo agio con se stesso, fiero della sua identità (proud, dicono in inglese). Aveva una relazione sana e progetti di sposarsi e avere dei figli. Al suo funerale, invece, la gente preferisce credere alla loro, costruita, versione del suicidio per un insieme di ragioni: per cattiveria, per ignoranza, per stereotipi, perché in Italia si pensa che gli omosessuali, appunto, cedano necessariamente alle loro “fragilità”, e alle pressioni – critiche – sociali. (Non dico che non succeda mai, perché mentirei, ma non era il caso del mio protagonista.) In parte, anche perché è una morte più succulenta e tragica di un banale incidente. A tutti piacciono le tragedie, quando toccano agli altri. Ammetto però di aver giocato tanto con l'ambiguità, a partire dal titolo, lasciando qua e là indizi che lasciassero intuire la verità sulla sua morte, per rispecchiare almeno un po' il modo in cui il pettegolezzo si confonde con la realtà.
Cosa ti aspetti dal Campiello Giovani qualora dovesse essere il tuo racconto il vincitore del premio?
Non so cosa aspettarmi, onestamente. Per ora mi godo l'essere finalista per la seconda volta, perché, comunque vada a settembre, lo trovo già un traguardo non indifferente.
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