“Sparire” di Fabio Viola
Fabio Viola è uno scrittore. Potrebbe apparire un’inutile constatazione, ma è quello che viene da pensare una volta chiuso il libro, dall’icastico titolo Sparire (Marsilio, 2013). Abbondano narratori, raccontatori di storie, anche efficaci, ma non scrittori, con uno stile del tutto loro come in questo caso, una lingua precisa e curata che descrive abilmente quello che si agita nell’animo dei protagonisti, dialoghi serrati efficacissimi.
Viola, già autore con Cristiano de Majo di uno dei libri più interessanti degli ultimi anni, la raccolta di reportage – genere poco praticato nel nostro Paese – Italia 2 (minimum fax, 2008), con questo secondo romanzo – segue Gli intervistatori (Ponte alle Grazie, 2010) – si conferma voce originale e profonda nel panorama letterario italiano.
Dietro l’accattivante e colorata copertina di Maurizio Ceccato si cela una lettura impegnativa, che attira in un gorgo a tratti angosciante. Non diremo qui la trama, neanche conta, non è la linearità di una storia che l’autore intende raccontare, quanto piuttosto lo smarrimento del protagonista, la sua incapacità di desiderare. Con ciò riuscendo a delineare un romanzo “generazionale”, molto più acuto di quelli programmaticamente tali, infarciti di trentenni precari e/o irresponsabili: «vivevamo con un senso di malinconia precoce, immobilizzati dalla futura assenza dell’altro e incapaci di muoverci e parlarne per scongiurarla, anche perché non lo volevamo davvero» e ancora, in un altro intenso passaggio, «mancava solo l’imbrunire all’orizzonte. Ma l’imbrunire ce l’avevamo dentro noi, e quello struggimento sordo e muto era la nostra fibra, Elisa e io eravamo il nostro tramonto».
Il protagonista, Ennio, borghese romano, benestante che non ha mai avuto problemi economici, ma non sa esattamente cosa vuole – «io non voglio tutto, sei tu che non vuoi niente», gli viene detto a un certo punto del racconto –, si reca in Giappone alla ricerca dell’ex fidanzata Elisa, scomparsa senza dare notizie di sé. Il Giappone del romanzo non è quello “orientalista” che potremmo aspettarci, è un Giappone senza Giapponesi, in cui Ennio, che ha iniziato a lavorare nella stessa scuola multimediale di Osaka in cui insegnava Elisa sperando di trovarla, interagisce quasi solo con altri stranieri come lui. Il Paese asiatico è lo sfondo straniante su cui lui si muove senza particolare interesse per esso, ma è anche quello del catastrofico terremoto del 2011, cui sono dedicate alcune intense pagine del romanzo. Man mano che la sua ricerca va avanti Ennio perde di vista l’obiettivo, si trova a riflettere sulla sua ossessione, sul suo rapporto con l’ex fidanzata e sull’amore, sul bisogno d’amore, tema centrale del romanzo, per arrivare alla conclusione che esso è assenza, è «scomposizione, sparizione, il contrario della vita fatta di cose e forme»; per Ennio sarebbe auspicabile raggiungere il «grado zero dell’esperienza umana», per cui «sarebbe bello se l’amore fosse questa cosa qui, tutta increspature di superficie, senza traumi e lampi e menate tipo la “stima”, il “dialogo”, il “progetto”, i “caratteri” eccetera». Più va avanti e più Ennio si rende conto che la realtà, forse, non è come lui pensava, ma una sua invenzione. Nei racconti che fa e si fa, negli altri personaggi che lui stesso “inventa” e addirittura di cui anticipa le mosse, raccontandone ad altri o scrivendone; perché tutto il romanzo di Viola è anche una riflessione sul potere della scrittura, sulla sua capacità creativa: il libro è costellato di mail che Ennio invia ai suoi familiari, a Elisa, ai suoi amici, addirittura a se stesso, poi il diario di una studentessa di Elisa attraverso cui lui conosce alcuni episodi della vita di lei in Giappone, un costruire storie e descrizioni che scivolano dalla realtà alla fantasia e viceversa, in un continuo e sapiente alternarsi di prolessi e analessi, di eventi accaduti e di ricordi deformanti («Non mi farai diventare il tuo ricordo, va bene? La mia vita è mia. Non puoi conservarmi come mi ricordi tu quando stavamo insieme.»«Tu non sei un ricordo.» «Per te sì. Non voglio esserlo.»).
Non interessa qui raccontare come va a finire la storia, se di fine si può parlare, non è quello che importa all’autore e nemmeno a noi lettori; in un vecchio romanzo di Tournier il protagonista a un certo punto diceva: «Quello che ci è mancato è una casa di parole in cui abitare insieme».
Viola dimostra tutta l’abilità che ha nel costruire case di parole e nel mostrare quanto esse possano diventare prigioni. La realtà è impossibile da raccontare, ma non ci rimane altro da fare.
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