“Sotto la falce” del razzismo. Jesmyn Ward descrive il Mississippi
Seduta per terra in un corridoio dell’aeroporto di Orio al Serio ho ascoltato una storia. Una storia che non mi appartiene, che non ha il mio colore e che per questo ho ascoltato con ancora più attenzione; il minimo che possa fare dalla mia posizione di privilegiata.
La storia è quella che Jesmyn Ward affida alle pagine del suo memoir Sotto la falce, pubblicato negli Stati Uniti nel 2013 e arrivato in Italia nel 2021 nella traduzione di Gaja Cenciarelli per i tipi di NN Editore. Un libro intriso di ricordi e persone, in cui la famiglia ha braccia che accolgono molte più anime di quante ce ne stiano sotto un solo tetto, pure se si tratta delle case affollate del Mississippi dove gli uomini muoiono o se ne vanno e le donne restano ma tutti e tutte sono schiacciati dallo stesso peso, la mancanza di fiducia.
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Sotto la falce è un memoir denso, che ripercorre la storia di un’intera comunità che cerca letteralmente di sopravvivere come può, con gli strumenti a sua disposizione, affrontando perdite, razzismo, abbandoni, povertà e assenza di prospettive.
Jesmyn Ward affronta il suo passato e ce lo restituisce cercando lei per prima di trovare un senso alle scelte delle persone, uomini in particolare, con cui è cresciuta; e per farlo sceglie di partire da lontano per avvicinarsi pian piano al suo presente, alternando la storia della sua città e della sua comunità alla vita dei cinque ragazzi che sono morti tra il 2000 e il 2005: Roger, Demon, C.J., Ronald fino a suo fratello Joshua.
«La mia storia familiare è costellata da cadaveri di uomini. Il dolore delle donne li chiama dall’oltretomba, li fa apparire sotto forma di fantasmi. Da morti, trascendono le contingenze di questo posto che amo e odio al contempo, e diventano creature soprannaturali. A volte, quando penso a tutti gli uomini della mia famiglia morti prematuramente, da una generazione all’altra, credo che il lupo sia DeLisle.»
Direi che questo libro è un’accusa, se non fosse che in questo termine qualcuno potrebbe leggerci del sentimentalismo e così togliergli importanza, come siamo abituati a fare con le emozioni, soprattutto se di donna. Così dico solo che Sotto la falce descrive una situazione reale di cui i bianchi hanno preso davvero coscienza solo nel 2020, durante una pandemia, quando il video dell’omicidio di George Floyd è rimbalzato per tutta la Rete e il movimento Black Lives Matter è venuto a bussare alle nostre bacheche. E non si limita a puntare il dito contro qualcuno, non è quello il punto per Ward, con la sua scrittura lirica e precisa lei descrive il peso psicologico, le difficoltà della povertà, la violenza, l’amicizia e prova a trarne delle conclusioni prima di fornirci le statistiche e inchiodare così le riflessioni con i numeri.
«La mia speranza è che capirò […] come la piaga del razzismo, della disuguaglianza economica e della mancata assunzione di responsabilità pubbliche e private si sia infettata, causando una pestilenza che si è diffusa ovunque. Spero anche di riuscire a capire perché mio fratello è morto mentre io sono viva, e perché mi sono ritrovata sulle spalle il fardello di questa storia marcia e schifosa.»
Seduta in quel corridoio e poi in volo e ancora su un pullman per Auschwitz, ho ascoltato la disperazione e la solitudine di Jesmyn Ward, ho sentito l’impotenza per la condizione di nascita e l’attaccamento a quella stessa comunità da cui sapeva di doversi allontanare per dare un senso agli sforzi della madre e a quella scuola di bianchi in cui si è sempre sentita aliena. Ho sentito, fisicamente, il suo dolore per le perdite continue, improvvise eppure prevedibili se sei un nero nel Sud degli Stati Uniti, ho sentito la mancanza di alternative e il bisogno di ottundimento.
«Senza l’eredità di mia madre non sarei mai stata in grado di guardare a questo passato di perdite, a questo futuro che di perdite me ne riserverà sicuramente altre, e scrivere la storia che ricordo, scrivere una storia che dice: Salve. Siamo qui. Ascoltateci.»
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Ho ascoltato, ho sentito e ha fatto male, anche se non è abbastanza perché quel dolore, per me, è solo un riflesso di cui non posso, e non voglio, appropriarmi. Così mi sono seduta e ho assecondato l’urgenza di sottolineare per rendere quelle parole indelebili e non perderle alla prossima storia.
Per la prima foto, copyright: Justin Wilkens su Unsplash.
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