“Sono comuni le cose degli amici" di Matteo Nucci
Quando il romanzo va lasciato decantare
Il faccia a faccia che apre il romanzo si traduce nel tête-à-tête tra il lettore e la copertina panna del libro. Da una porta socchiusa, Lorenzo spia il padre defunto all’interno della camera ardente allestita nell’amata casa di campagna; neanche i tranquillanti cancellano il giudizio sospeso sull’uomo affettuoso e insondabile che lo ha messo al mondo. É lo stesso incerto (pre)giudizio vissuto prendendo in mano Sono comuni le cose degli amici, di Matteo Nucci, e osservando quella specie di “bara” di carta ruvida che recita: “Finalista al premio Strega 2010”.
Un traguardo che oggi può pesare sulle opere, affossandole con superstizioni di nomination pilotate. Eppure, al di là della luce riflessa dei premi letterari, ci sono pagine che acquistano vita propria, come quelle di Nucci. A suo agio con Empedocle e Platone – trattati in alcuni suoi saggi – nella scelta del titolo per il suo primo romanzo si è lasciato guidare da Fedro.
Alla morte del padre Leonardo, l’irrisolto quarantenne Lorenzo viene catapultato in un’estate di dettagliati flashback e lente rivelazioni intime, tra celebrative amatriciane (Nucci sostituisce la pancetta con il pesce spada) e introspettive passeggiate su pendii ventosi. Indagare la vita sregolata del padre donnaiolo e i suoi innumerevoli tradimenti, gli mostrerà i suoi stessi inganni, ai danni di una moglie abbandonata, dell’amico di una vita, ma anche di se stesso.
Tre capitoli dal titolo sibillino scandiscono le tappe della presa di coscienza di Lorenzo. Nella intrigante prima tranche, Veglia, gli intrecci famigliari si bisbigliano fra condoglianze e silenzi, durante la preparazione quasi rituale di una cena. Proprio attraverso la carnalità del cibo Lorenzo tenterà di superare l’impasse e restare “in contatto” con il padre, un tempo patron di grandi abbuffate corali. Da fervente classicista, Nucci non si è fatto mancare la Grecia, dedicando Vento alla vacanza da incubo di Lorenzo e Sara (la donna “strappata” al migliore amico, Marco), in un alternarsi di mutismi e confuse regressioni. Con Volto, Lorenzo torna al microcosmo romano: dall’ingrandimento del suo doloroso vetrino esistenziale tira le somme con Marco e l’ingombrante ricordo del padre.
Sono comuni le cose degli amici è lontano dall’essere di facile lettura. Elaborato e minuzioso fino a sfiorare il maniacale, Nucci sembra far di tutto per tramortire con infilate di passaggi fioriti, confusi susseguirsi di flashback e vani “botta e risposta”. Per cinque pagine si sale su un monte con Lorenzo, sfiorando ogni arbusto e commentando ciascun scorcio di panorama. In motorino, in un afoso agosto romano, si viaggia verso casa di Marco e incontro alle scomode verità di suo padre: sette pagine di complesse citazioni botaniche e incroci con la Prenestina.
Più volte il pensiero è tornato all'oscuro presagio di quella fascetta. Nucci ha vinto solo qualche giorno dopo, quando la sedimentazione ha premiato la provocazione. Sotto le spoglie della noia, dietro al macchinoso linguaggio, è l’enfasi stessa a narrare. L’esasperazione studiata dei particolari punta il dito contro le false apparenze di ognuno e indica la fatica ineluttabile di andare incontro al proprio destino. É un romanzo chesi assesta sulla distanza, come un buon Barolo, maturando l’amara delicatezza di questa intensa storia di capelli. Sì, di capelli. Dei capelli corti che Leonardo esige in tutte le sue donne, di quelli “lunghi uguali” che ammira in Lorenzo e Marco, perfetti nel loro essere, a detta sua, “amici bellissimi”. Gli stessi capelli che, in un crescendo finale, davanti al tipico momento conoscitivo dello specchio, Lorenzo giudica “troppo lunghi”.
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