Solo l’educazione può salvare la democrazia. Intervista a Sergio Labate
Salerno editore pubblica La virtù democratica. Un rimedio al populismo, un saggio di Sergio Labate, professore associato di Filosofia teoretica all'Università di Macerata, che analizza con disincanto la situazione politica attuale. Ci troviamo in un momento storico particolare, in cui i movimenti nazionalisti e populisti sembrano aver messo sotto processo il concetto stesso di democrazia rappresentativa, indicandola come la causa principale della crisi della politica, dello scollamento tra popolo ed élite e della generale sfiducia, salvo eccezioni, nei confronti delle istituzioni.
In realtà, si tratta di analizzare e comprendere quali sono le debolezze della democrazia, perché una ricostruzione del legame indebolito tra governanti e governati può basarsi solo sull'uso corretto di tutte le forme politiche rappresentative, non su apparentemente facili scorciatoie di tipo autoritario, né tantomeno su un'impossibile uso della democrazia diretta. Labate ricorre alle idee di grandi filosofi e pensatori del passato, da Platone a Marx, nonché a esempi storici concreti, come il percorso compiuto da Robespierre dalla Rivoluzione al Terrore.
In definitiva, non possiamo smettere di credere nel valore della democrazia, che per quanto imperfetta resta l'unica possibilità di salvezza da ogni tipo di deriva autoritaria.
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A questo proposito abbiamo posto qualche domanda al professor Labate.
Accostando la lettura del suo saggio alle riflessioni quotidiane dei commentatori politici è difficile non farsi prendere dallo sconforto di fronte alla situazione attuale. Abbiamo ancora la possibilità di fermare la crisi dirompente della democrazia, che non è solo italiana ma riguarda ormai buona parte del mondo occidentale?
Lo chiamerei realismo, non sconforto. Abbiamo bisogno di un atto di realismo perchè non possiamo non accorgersi che non siamo dinanzi a uno "stato di eccezione" della democrazia, ma a un suo sistematico indebolimento. E ciò che segue al realismo non è necessariamente lo sconforto. Anzi, credo che ciò che è necessario sia uscire dall'ottundimento del reale per cercare di lavorare sugli spazi che restano. Senza dare per scontato conquiste di civiltà e poi scandalizzarci se esse vengono velocemente negate. Ricordandoci che la democrazia non si salva da sola, ma attraverso le mobilitazioni collettive e i conflitti. E tra lo sconforto e un produttivo "lavoro politico" c'è di mezzo lo studio e l'approfondimento. Non c'è utopia o speranza che non parta dallo studio, che non parta da uno sguardo che osservi il reale per ciò che è, col coraggio di osservare anche lo spiacevole, l'irriguardoso, il perturbante. Con questo libro non vorrei contribuire al sentimento collettivo dello sconforto ma piuttosto al coraggio della verità, primo passo per una riconquista della democrazia.
La sensazione è che sia venuto a mancare l'interessamento delle persone alla politica, a partire dai giovani che appaiono sempre più spesso indifferenti, o al massimo impegnati in movimenti concreti, come quelli ambientalisti, ma restano lontani dai partiti. Da dove si potrebbe cominciare per riavvicinare le nuove generazioni alla politica?
Per prima cosa mi lasci rispondere che il mio costante dialogo con le nuove generazioni – attraverso l'insegnamento universitario – mi permette di ipotizzare con più attenzione la genesi della loro indifferenza. I giovani sono assetati di senso, ma noi abbiamo tolto loro la possibilità di attingere a qualunque fonte. Compresa la fonte della democrazia. Che si presenta oggi come una tecnica, e per giunta tra le meno efficaci. Perchè i giovani dovrebbero credere di poter trarre senso da una tecnica? Il cellulare, per fare un esempio, ha per un giovane un valore fortissimo, ma non ha propriamente alcun senso. Ha senso ciò a cui si può accedere attraverso quel dispositivo. Ora, a quale senso permette di accedere la politica oggi? È un dispositivo che estende i diritti delle persone? Che le rende più protette socialmente ed economicamente? Per noi è stato facile credere alla democrazia, perchè essa conteneva in sé delle promesse di senso che estendevano l'orizzonte delle nostre aspettative. Ma oggi? Non possiamo pretendere che i giovani siano innamorati di un'esperienza collettiva che ha rovesciato il suo senso rispetto alle nostre generazioni; che da esperienza di allargamento è divenuta esperienza di restringimento e di oppressione. Dunque il problema non sono i giovani, ma la democrazia e la sua funzionalizzazione che ne ha indebolito, per fare solo un esempio che faccio nel mio libro, il nesso con la verità.
Lei parla del sottoproletariato, così come è stato descritto da Marx e da Hugo, e a me sembra che questa definizione di massa eterogenea e inclassificabile comprenda oggi quell'insieme di persone, di varia estrazione sociale, ma nel complesso frustrate e insoddisfatte della propria condizione, impegnate quotidianamente a seminare odio nella società, soprattutto attraverso i social. Questo sottoproletariato secondo lei è del tutto senza speranza?
Per certi versi quella "schiuma di tutte le classi" che si fa "una sola classe" – come scrive Marx – somiglia all'impietoso e caotico irrompere sulla scena pubblica dei social e dei loro meccanismi comunicativi e politici. Però il senso di quel capitolo non è condannare il sottoproletariato, ma condannarne ogni tentazione di condanna. Voglio dire che nel conflitto tra elitismo e populismo mi pare che ciò che manca sia la capacità di un mutuo riconoscimento, accordarsi una fiducia reciproca. E dunque ogni epoca in cui il sottoproletariato satura caoticamente la scena politica è in realtà un'epoca in cui le élite hanno abdicato al loro compito politico che è quello di dirigere e non soltanto di dominare, per dirla con Gramsci. È troppo semplice condannare coloro che vogliamo solo dominare e condannarli per il semplice fatto che, a loro modo, non sono disposti a farsi dominare. La conseguenza necessaria di questo atteggiamento è ciò che definisco l'odio delle élite nei confronti della democrazia. Al contrario, una democrazia popolare si nutre di un costante lavoro sui margini, abita il territorio tra le élite e le classi popolari, costruisce il consenso non come un cinico meccanismo di dominio ma attraverso una complessa pedagogia repubblicana, tesa a ridurre le distanze tra chi governa e chi è governato (per continuare a evocare il fantasma di Gramsci). Il rimedio al populismo non è lo snobismo, ma l'educazione.
Sempre osservando quello che avviene nei social e come stia influenzando il pensiero corrente, la rete sembra il regno di quel relativismo a cui lei accenna, inteso come la «tendenza per cui ognuno sente di aver accesso all'ordine delle risposte», che mira a far diventare verità la singola opinione. Possiamo ancora evitare di ritrovarci in un mondo in cui le "chiacchiere da bar" diventino più significative delle idee?
C'è una cosa su cui una democrazia liberale credibile si dovrebbe reggere e su cui dovrebbero essere d'accordo tutte le parti politiche (basta leggere un liberale come Rawls per accorgersene). È il credito da dare all'educazione. Semplicemente perchè una democrazia non può avere in odio l'uguaglianza. Sia da destra, perchè l'uguaglianza di partenza è ciò che permette di uscire dall'epoca dei privilegi e dunque di "premiare il merito", come si direbbe oggi con una retorica molto discutibile; sia da sinistra, perchè l'uguaglianza è in questo caso non solo il punto di partenza ma il fine di una democrazia. Ma se non c'è democrazia senza uguaglianza – in una qualche sua forma – è perchè la democrazia deve sempre prendere forma a partire da uno stato di cose diseguale: in cui qualcuno è più privilegiato di altri. La forza della democrazia è sempre stata quella di mettere in discussione la sclerotizzazione dei ruoli. È (anche) per permettere di "pareggiare i conti" che è stato necessario inventare l'istituzione totale della scuola. Ecco, noi siamo il risultato di un ventennio in cui all'unisono le parti politiche hanno ritenuto di dover destrutturare la Scuola e l'Università (ma anche la funzione culturale della televisione pubblica, per esempio), facendone ormai delle semplici agenzie di collocamento per un lavoro che non c'è. Non parliamo poi dell'atteggiamento nei confronti degli intellettuali. Il disprezzo della politica nei confronti degli intellettuali è una delle poche cose che unisce tutte le parti politiche, da destra a sinistra passando per il M5S. È strano un mondo in cui le élite disprezzano gli intellettuali ma poi si agitano quando qualcuno pretende di fare affermazioni arbitrarie, urlando a gran voce che è necessario essere competenti per parlare.
Un piccolo avviso ai naviganti: se ci abbiamo messo almeno vent'anni a ridurci così, non possiamo pensare di mettercene di meno a migliorare. Insomma, non saranno le prossime elezioni (ci sono sempre all'orizzonte delle prossime elezioni) a salvarci dall'ignoranza e dall'inciviltà di un'epoca post-democratica.
Perché gli intellettuali si ritrovano a essere odiati sia dal popolo, sia dalle élite? E perché la cultura, particolarmente in questo periodo, sembra suscitare da un lato una certa paura, dall'altro un vero disprezzo?
Ci sono tante concause che hanno contribuito a rafforzare questo disprezzo cui fa riferimento. Mi limito qui a segnalarne tre. La prima è di natura economica. Una delle modifiche meno citate causate dal neoliberismo rispetto al passato è che esso ha rideterminato il rapporto tra il lavoro produttivo (che produce merci) e quello improduttivo (che produce le condizioni di possibilità sociali per lo scambio delle merci). Il lavoro improduttivo è ormai accettabile solo nella misura in cui è immediatamente produttivo (pensiamo allo sfruttamento del lavoro gratuito o del tempo libero, o all'uso produttivo del nostro stare sui social). Il lavoro intellettuale resta invece un puro lavoro improduttivo, per lo più. Dunque la cultura è stata messa davanti a una trappola: o si trasforma in lavoro produttivo (l'Università è per esempio dominata da questa farneticante illusione di poter valutare un lavoro improduttivo come se esso fosse sempre produttivo) o non ha più alcun valore. La seconda causa la definirei antropologica. In una società malata di narcisismo, la riproduzione delle classi dirigenti segue il criterio dell'obbedienza e non più del suo contrario, che è l'intelligenza critica. Così i veri intellettuali non possono essere che emarginati. Perchè essi invece si nutrono della capacità critica del pensiero, della sua capacità di problematizzare il reale. Pongono domande, non si scompongono in applausi scroscianti. In una società dominata dal narcisismo patologico, all'intellettuale si è sostituito il sofista: colui che strepita per non dire niente. Che non chiarisce l'oscurità dei problemi, ma intorpidisce le acque, magari divertendo o provocando.
La terza è il consumismo delle idee. Esse sono merci e come tutte le merci si comprano se illudono di servire a qualcosa e hanno una obsolescenza programmata. La forza dell'esempio che prevale è questa: che la cultura vale se serve a qualcosa, se è efficace. L'impazienza è un nemico comune sia della cultura sia della democrazia. Perchè anche la democrazia richiede tempo: bisogna discutere, trovare accordi, studiare la realtà, persuadere le persone, risultare credibili. Insomma, non è un meccanismo propriamente efficace. Ma proprio questa sua complessità ci permette di evitare alcune scorciatoie che la storia ha dimostrato essere fatali. Lo stesso vale per la cultura. Se essa non è pensiero complesso non è. Dovremmo tutti far nostra la preghiera di Ivano Fossati in una sua canzone (Il Battito): «dateci parole poco chiare, quelle che gli italiani non amano capire...»
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Per concludere, considerando che la visione espressa dal suo saggio non è molto ottimista, lei come vede il prossimo futuro?
Non credo affatto di non essere ottimista. O meglio, se l'ottimista è colui che preferisce non fare i conti con la gravità della malattia e affidarsi a delle medicine che lo fanno guarire il prima possibile, allora va bene: decisamente non sono ottimista. Ma il culto della potenza e dell'efficacia è parte del problema, non della soluzione. Mentre la democrazia, con la sua anacronistica imperfezione, può essere parte della soluzione. Basta rovesciare lo sguardo per rovesciare il suo giudizio. Non propongo ricette semplici, non invoco né un prossimo salvatore né un prossima elezione palingenetica, invoco un lavoro politico che non si limiti al dominio ma abbia come obiettivo la pazienza del consenso, restituisco alla cultura un ruolo non ideologico ma critico. Sono decisamente ottimista, e lo sono proprio perchè propongo queste cose. Torniamo così alla fine al punto da cui siamo partiti: ciò che appare irrealistico è in realtà un atto d'amore nei confronti del reale.
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Per la prima foto, copyright: Randy Colas su Unsplash.
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