Sibilla Aleramo senza veli
Anche la grafia di Sibilla Aleramo (Alessandria, 1876 – Roma, 1960), come abbiamo visto già per Leopardi, cela in sé particolari curiosi. Cerchiamo di scoprirli nel corso di una chiacchierata con la grafologa forense Sara Cordella, docente di metodologia della grafologia peritale nella Scuola Patavina di Grafologia. Un’indagine interessante, quella sulla figura di Rina Faccio (il nome vero della Aleramo), scrittrice e poetessa, che ha avuto relazioni con alcuni dei nomi più importanti della cultura italiana del Novecento, come Papini, Boccioni, Quasimodo e Campana.
«La grafia della poetessa è caratterizzata da tratti di eleganza e raffinatezza – mostra subito Sara Cordella –, con uno spiccato senso della forma e dell’estetica. L’immaginazione, vivace e combinatoria, le conferisce un elevato livello di ricettività e sensibilità nel captare l’armonia delle forme della natura e reinterpretarle. Intuitiva, originale e spontanea, è comunque legata a un forte senso e rispetto per la sua dignità personale».
«Affascinante e consapevole delle sue capacità, sempre mossa, come ci dicono le aste rette, da una positiva ambizione che l’ha resa, in ogni campo, determinata e caparbia». Così appare l’autrice di Una donna e di molte poesie nelle quali è spesso protagonista un forte accento autobiografico. «La grafia è quella di una donna che sa bastare a sé stessa e che è decisa e risoluta; i tratti recisi sono indicativi di una persona che agisce in piena autonomia di giudizio e di azione».
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«Chi possiede una grafia così netta – spiega in chiusura la grafologa – sente forte l’urgenza del tempo e, pertanto, lo sfrutta al massimo, rifiutando mezzi termini e compromessi con la coscienza e con l’ambiente. L’intelligenza, sempre in azione, la rende agile e rapida nelle scelte, passando subito dalla concezione all’atto pratico». Cambiamenti totali e repentini vissuti da Sibilla Aleramo senza timori e senza rimorsi, tanto che lei stessa dirà che è stato come se avesse vissuto più vite. «Ho fatto della mia vita – scrive Sibilla Aleramo in un diario verso la fine dei suoi giorni –, come amante indomita, il capolavoro che non ho avuto così modo di creare in poesia».
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