Siamo frutto di un’invenzione. Intervista a Teresa Ciabatti
Sembrava bellezza esce per Mondadori, lo firma Teresa Ciabatti, ed è un romanzo straordinario. I personaggi, gli eventi che li coinvolgono, i pensieri che attraversano le loro vite sono privi di cosmesi. Niente mascara, fondotinta, ombretti per addomesticare la verità.
Allora questa, la verità, scorga e irrora l’intero romanzo al punto da farti venire una voglia irrefrenabile di sapere. È profondo quello che racconta l’autrice, ed è accessibile, e ciò diventa un connubio d’eccezione.
La storia si farebbe presto a dirla, ma sarebbe un’illusione pensare di poterla riassumere in una successione di eventi, poiché la storia è un arrazzo, dispiegarne un filo è un gesto riduttivo.Sembrava bellezza va letto.
Leggendo si incontrerà la voce narrante e lei sarà una prima rivelazione,il primo impatto con il misto di sentimenti che accompagna a lungo – ma non è forse questo ciò che percepiamo anche nella vita reale nei confronti degli esseri umani reali, ovvero un misto di sentimenti? –; poi si farà un tuffo nel passato, nell’adolescenza della protagonista – qui, il gioco del prima e del dopo si espande nel cuore di chi legge con la forza della sorpresa, della meraviglia – e si incontrerà la sua amica, e soprattutto la sorella di questa, Livia.
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È con Livia che inizia tutto, o attraverso di lei, diventando un racconto corale, femminile, sì, ma soprattutto umano. Voci, ricordi, fatti, giudizi, pensieri, impeti, giustificazioni si alternano, si intrecciano fino a delineare ogni fibra di un romanzo che sa sospendere il tempo. Del lettore. Dei personaggi.
In occasione dell’uscita di Sembrava bellezza, con Teresa Ciabatti abbiamo affrontato alcuni temi che rendono il romanzo un eccezionale esempio di letteratura contemporanea.
C’è un frangente in cui, in modo sottile, mette a confronto la fama raggiunta da giovani e quella raggiunta in età matura. Qual è il prezzo da pagare richiesto dalla fama? Ci sono sensi di colpa coinvolti?
La protagonista, una scrittrice, ha avuto un breve trionfo. Quando parla di celebrità è una proiezione, una finzione che lungo la storia si svela come tale (in un crescendo di indizi: nessuno la cerca, ad ascoltarla alle presentazioni poche persone). La sua è una messa in scena del successo, la recita dei luoghi comuni che ne conseguono: il sacrificio per ottenerlo, il senso di colpa per aver sottratto tempo alla figlia (anche qui: in una rappresentazione eroica di sé). Il fuoco del romanzo non è la fama, ma la frustrazione, insieme all’ansia di farsi acclamare, applaudire. Il bisogno di esistere attraverso lo sguardo degli altri, quasi non fosse possibile un’esistenza all’ombra.
Lei parla di un fuori e di un dentro, dell’immagine e del vissuto che diventa nutrimento universale delle storie. In che modo possono raggiungere un equilibrio questi due estremi, l’immagine di sé e il sé?
L’immaginazione vale da esperienza, è ripetuto nel libro. Questo significa che ciò che abbiamo immaginato rientra nel vissuto, ci forma. L’equilibrio tra fantasia e realtà, possibile a sprazzi, è condizionato dalla memoria. Scrivendo Sembrava bellezza, in particolare il personaggio di Livia,ho riletto Oliver Sacks, e Aleksandr Lurija (Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla).
«Ognuno di noi è un racconto peculiare, costruito di continuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi – attraverso le nostre percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni». Scrive Sacks, e la sua non è un’intuizione poetica ma un’osservazione scientifica.
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La protagonista è una scrittrice, ma la sensazione è che possa essere anche altro, purché si resti all’interno dell’universo femminile in cui la carriera – qualsiasi carriera – è sempre sinonimo di rinuncia. Non c’è sintesi, secondo lei, specie se è la madre a dedicarsi alla carriera? La figlia, a tratti, sembra perdonare più facilmente il padre.
La contrapposizione con la madre è necessaria per determinarsi come donna, poco importa chi sia la madre, che lavoro faccia. Ogni figlia vive il femminile materno a intermittenza: tentazione, spettro, modello da replicare, modello da rinnegare. Cosa che vale anche al contrario: madri in lotta tra ideale e reale. Nel romanzo l’ideale delle madri è la distanza dal guasto di Livia che ha segnato tutte loro. Personaggi per i quali aleggia il terrore di ritrovarsi figli danneggiati, a diversi gradi, dal ritardo mentale alla semplice mancanza di intelligenza. E così un bambino che ruota su stesso, ruota ruota, ondeggia, perde l’equilibro, non lo perde, rimanda a Livia, Livia danneggiata che gira su se stessa, gira gira, perde l’equilibrio, cade.
Esiste un momento in cui nella perdita di una persona amata si piange se stessi… C’è qui l’essenza di ogni rituale di ultimo saluto, la difficoltà di ogni perdita. Può commentare?
Il lutto ha un lato narcisistico, specie nel processo di idealizzazione dei morti (che può essere anche demolizione, pur sempre di innalzamento si tratta). Mentre la protagonista con la morte dei genitori ha perso la sé bambina, e nel ricordo distrugge padre e madre per fare di sé l’eroina, Livia, che non ricorda ciò che ha perso, non ha bisogno di rielaborazione, rimanendo congelata ai suoi sedici anni.
Ci sono molti dettagli nel libro che hanno la forza di scuotere il lettore, specie alcune sue certezze. Nel raccontare, nel raccontarci le cose, perché, secondo lei, tendiamo a indossare i panni della vittima, di chi ha subito, come se non fossimo mai carnefici? Crede che questa propensione della mente sia coinvolta nella fortuna di alcuni simboli come i martiri, per esempio?
A un certo punto del libro il dubbio: e se fossimo state noi a provocare i padri? (riguardo all’abuso subito dalla nonna, e all’abuso che la protagonista sospetta di aver subito dal padre- a proposito di demonizzazione dei morti). Per dire che vittima e carnefice non sono parti così distanti a volte. Andiamo oltre agli accadimenti reali, dimentichiamoli, manipoliamoli: siamo noi ad attribuirci un ruolo preciso.
Siamo il frutto di un’alterazione fantastica, se non di un’invenzione. Perché la nostra storia personale, come la storia dell’umanità, semplifica, crea simboli. Così nella storia del cristianesimo il martire ha una funzione sociale, coi primi martiri, gli apostoli, che funzionano da modello del bene. E noi, chi siamo noi? Nella nostra piccola esistenza possiamo essere tutto, meglio se vittime, più comodo entrare nella parte di vittima.
Evolvere è una questione di esperienza. Quali conseguenze si verificano nel momento in cui i genitori sottraggono i figli all’esperienza?
D’istinto vorremmo risparmiare ai nostri figli il dolore. Eppure per formarsi come individui consapevoli sono necessari conflitto, frustrazione, perdita, senso di inadeguatezza. Così Livia che non ha memoria di ciò che vive rimane ferma ai suoi sedici anni, che è poi l’unico modo per mantenere la giovinezza. Volevo che bellezza e giovinezza in questo libro fossero anomalie della mente. Più ricordiamo, e più proviamo dolore. Più ricordiamo, e più invecchiamo. Più invecchiamo, e più rimaneggiamo, aggiustiamo. Io mi domando spesso: cosa penserei di mia madre, se la conoscessi adesso? E di mio padre, e di mia figlia? Cosa penserei di me se m’incontrassi oggi?
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Per la prima foto, copyright: Chad Kirchoff su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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