«Si faccia una vita interiore». Lettera di Cesare Pavese a Fernanda Pivano
Quando nel 1943 Cesare Pavese scrive a Fernanda Pivano la lettera che qui di seguito riportiamo, lei aveva da poco pubblicato le sue due prime traduzioni, cioè L’illusione della filosofia di Jeanne Hersch e Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, mentre Pavese aveva già pubblicato Lavorare stanca e Paesi tuoi. L’amore – non corrisposto – di Pavese per Pivano era già sbocciato da qualche anno, la prima richiesta di matrimonio risale al 1940, la successiva al 1945 (entrambe sono riportate sul frontespizio di Ferie d’agosto). Del resto sono trascorsi già undici anni dalla bellissima lettera d’amore che Pavese aveva indirizzato a E.
Nella lettera Pavese tende a dare a Fernanda qualche consiglio, alcune parole potrebbero sembrare anche dure, ma resta sempre l’affetto dell’uomo per la donna, che un tempo era stata sua studentessa liceale.
Ecco la lettera.
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A Fernanda Pivano, Mondovì Breo.
[Roma,] domenica 30 [maggio 1943]
Cara Fern,
la Sua lettera mi ha molto commosso e se potessi prenderei subito il treno per provarLe che non è vero che la circondi il gelo e l'ostilità. Ma non capisco perché si trovi tanto male proprio adesso che sa di poter lavorare nove ore al giorno e quindi pressoché mantenersi. Non ha sempre aspirato all'indipendenza? A meno che Le succeda come a tutti: una volta ottenutala, non sa più che farne. Si ritorna cioè a quanto Le ho sempre consigliato: si faccia una vita interiore – di studio, di affetti, d'interessi umani che non siano soltanto di «arrivare», ma di «essere» – e vedrà che la vita avrà un significato. Io non ho potuto muovermi anche perché abbiamo avuto i questurini in casa per parecchio tempo – una nostra impiegata è stata arrestata – e s'immagini le grane.
Cara Fern, la solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e «donando» invece di «ricevere». (È la solita sacrosanta predica). Non che io aneli di essere quello a cui Lei dovrebbe donare – tanto più che i doni che Lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri.
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Fin che uno dice «sono solo», sono «estraneo e sconosciuto», «sento il gelo», starà sempre peggio. È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto.
La nostra posizione qui è molto precaria. Il padrone ogni tanto fa progetti per riportare la baracca in Piemonte – che non mi dispiacerebbe. Ma intanto – tira e molla – non faccio più niente e non ho più pace.
La smetta con quella stupida storia dell'assegno. Pensi piuttosto a tradurre l'Addio, e con l'assegno si comperi un monopattino.
Coraggio e arrivederci.
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