Sesso e disabilità raccontati con ironia. “Non volevo morire vergine” di Barbara Garlaschelli
Parlarvi di un libro come Non volevo morire vergine di Barbara Garlaschelli (edito da Piemme) non è facile. S’intravede – fin dalla copertina e dal titolo – qualcosa che te lo fa amare e qualcosa che ti fa paura, allo stesso tempo. O almeno, questa è la sensazione che ho provato io quando ero indeciso sul leggerlo o meno. Ma poi mi sono chiesto: “leggere – in fondo – non è anche un po’ assaporare attraverso le parole le sensazioni di altre vite? Beh, e allora, perché non scegliere quella di una scrittrice come Garlaschelli?” E così ho deciso: ho comprato il libro e ho iniziato a leggere la prefazione di Daria Bignardi. Subito ho cominciato a sentire che sì, forse, avevo fatto la scelta giusta! Ho intuito, sin dalle prime pagine, che quel libro autobiografico di una donna tetraplegica mi avrebbe fatto scoprire tanto. Tantissimo. Mi avrebbe fatto percepire un mondo a me estraneo e, principalmente, mi avrebbe fatto capire un modo di ragionare che – adesso che l’ho letto – posso affermare con certezza, vale la pena conoscere e apprezzare.
Tuttavia, come ho già scritto all’inizio della recensione, parlare di questo volume non è affatto semplice sia perché racchiude concetti profondi e quasi privi di pudore e sia perché alterna, a racconti malinconici e intrisi di tristezza, sferzate d’ironia e dileggio. E soprattutto perché, oltre alla trama in sé per sé, le pagine che lo compongono raccolgono l’animo di una donna che «usa una sedia a rotelle per muoversi». Un concetto, quest’ultimo, che rappresenta il “respiro” del libro, il filo che ricama il messaggio finale, la morale ultima – in poche parole – che dovrebbe rimanere nella testa dei lettori dopo aver girato tutte le pagine.
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Per capire bene che tipologia di libro che abbiamo davanti, iniziamo col dire chi è Barbara Garlaschelli (lo si intuisce bene dal libro!). È una donna, prima di tutto. Ma anche una scrittrice. Vive a Piacenza, è laureata in Lettere Moderne e ha alle spalle un bel po’ di pubblicazioni. Sirena. Mezzo pesante in movimento (Mobydick, 2001), giusto per fare un esempio, vincitore del premio Fenice Europa 2002 sezione Claudia Malizia e premio Desenzano Libro Giovani 2006. Oppure Sorelle (Frassinelli, 2004) vincitore del premio Scerbanenco 2004. E ancora Non ti voglio vicino (Frassinelli, 2010), tra i dodici finalisti del premio Strega 2010. Insomma, è una scrittrice di successo. Amata da molti. Una che con le parole ci sa fare. E Non volevo morire vergine ne è l’ennesima riprova.
Barbara, però, non è solo una donna e una scrittrice famosa. È anche la protagonista di un incidente che l’ha resa tetraplegica. Tutto accade (lo racconta nella prima parte del libro), quando, all’età di quindici anni, per un tuffo in acqua troppo bassa, si frattura una parte della spina dorsale. Una lesione che la costringe a muoversi con una sedia a rotelle.
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Per lei è dura. Durissima. E non solo perché è costretta a rimanere a letto per diversi mesi subendo numerose e dolorose operazioni (che tra l’altro le lasciano delle vistose cicatrici sulla schiena e sulla testa), ma perché ha anche l’età delle prime cotte, delle prime schermaglie, dei batticuori, del sesso. È un’adolescente che, lentamente, – assieme ai dolori dati dalla sua condizione – si porta dietro l’insopportabile pensiero di poter restare vergine per sempre. E non solo vergine nel corpo, ma di esperienze, di sbagli, di successi… di vita. Quale uomo, si chiede, si avvicinerà mai a una come me?
«A Milano, in una giornata di ottobre del 1982, guardo fuori da una delle tante finestre della classe e vedo ragazzi e ragazze che passeggiano nel prato della scuola. Una volta ero come loro. Camminavo, correvo, saltavo. Ora tutto è cambiato. Io sono ferma mentre loro continuano a correre, ignari del tesoro che possiedono: un corpo che risponde alla propria volontà. E io non voglio morire vergine. Non sarà facilissimo.»
Anno dopo anno, Barbara cresce. Matura. Supera anche un periodo di depressione e raggiunge la notorietà grazie ai suoi scritti. Vive la vita come meglio può, affiancata dagli amici e dagli amatissimi genitori (compagni e complici in tutto). Si sente meglio. Affronta mille difficoltà, e impara a fare i conti con la sua nuova condizione. Vive una seconda vita. Ma sente, comunque, che gli manca qualcosa: il sesso. Le non vuole morire vergine. Fa di tutto e riesce a trovarlo. Assieme, successivamente, a qualcosa che sperava di ottenere: l’Amore. Quello con la A maiuscola.
Non voglio dirvi altro sulla trama e sul contenuto. Meglio scoprirli leggendolo... lentamente, capitolo dopo capitolo, o tutto d’un fiato come ho fatto io.
Per quanto riguarda il linguaggio, posso dirvi, invece, che è semplice e senza troppi fronzoli. Diretto, schietto, arricchito da qualche metafora e da diverse citazioni (da libri e film, di cui è disponibile la lista alla fine del libro). È scritto naturalmente in prima persona ed è composto da frasi brevi e concise. Non vi è un intreccio narrativo particolarmente complesso. La prima parte racconta dell'incidente e di quello che le è successo subito dopo. A seguire, sono riassuntigli eventi salienti, scelti dall’autrice, per raccontare la sua iniziazione al sesso e all’amore. Le vicende raccontate sono spesso tragicomiche, con protagonisti lei, ragazzi e uomini impacciati, teneri e a volte crudeli.
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Non volevo morire vergine è un libro ironico, commovente e coraggioso. Che non scade mai nel banale o nello scabroso. È una realtà che non ti aspetti. È un testo elegante e sensuale. Dai mille consigli. Triste e che fa riflettere.
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