Senza regole, fino alla fine del mondo. “Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore” di Hans Tuzzi
Hans Tuzzi è lo pseudonimo di Adriano Bon (Milano, nato nel 1952), una vecchia volpe nel mondo delle patrie lettere: docente universitario al Master di editoria cartacea e multimediale dell’Università di Bologna, consulente editoriale e saggista, collaboratore dell’inserto culturale de «Il Sole 24 Ore» e «Il Corriere della Sera». Come scrittore è noto al grande pubblico per una serie di romanzi gialli ambientati a Milano che hanno come protagonista il commissario Norberto Melis.
È innegabile che Tuzzi sia uno dei migliori autori di gialli attualmente in circolazione; la sua sincera predilezione per i personaggi – che considera più autentici della realtà stessa – è testimoniata anche dalla scelta del suo pseudonimo (il nome è quello di un personaggio de L’uomo senza qualità di Robert Musil) e da una produzione di narrativa che annovera oltre una decina di romanzi (recente il ciclo di Neron Vukcic, che ha come protagonista un agente segreto dell’Impero asburgico). Il suo approccio al genere è di stile classico ma pur muovendosi in un ambito che richiede certe strutture e schematismi, Tuzzi è un battitore libero, che spesso se ne infischia di ingabbiarsi nella rigidità di alcune regole. Se vogliamo è con questo orientamento che offre ai suoi lettori il recente manuale Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore (Bollati Boringhieri, 2017), dove in apertura (Prima di scrivere) le sue intenzioni si palesano così:
«Se chi si appresta a leggere questo libro spera di trovare enunciati regole e precetti più o meno ovvi su come scrivere cosa, allora forse è meglio che abbandoni il libro e l’idea di diventare scrittore».
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Altolà, perciò, a coloro che si avvicinano a questo (manuale?) per ricavarne consigli pratici sull’esercizio della scrittura creativa– anzi, “narrativa”, l’aggettivo “creativa” non piace a Tuzzi! «Per scrivere un romanzo il talento e l’istinto sono necessari. Vanno educati, certo, ma sono necessari». Non bastano le scuole di scrittura, né leggere compulsivamente o proclamarsi “candidi”, alla Voltaire, o peggio ancora naïf. Che cos’è questa creatura di Tuzzi? viene allora da chiedersi, a noi lettori e forse anche agli addetti ai lavori; la risposta più plausibile che mi sento di darvi è che questo libro è la testimonianza dell’amore totalizzante di Tuzzi nei confronti della grande letteratura e, al contempo, che i suoi contenuti riguardano esclusivamente quel «vanno educati», riferiti a talento e istinto.
Potrebbe perciò essere un testo che parla di letture – e che letture, sottolineo con ammirazione! – se non fosse che nel gioco mobilissimo delle citazioni affiorano qua e là folgoranti intuizioni sulla pratica della scrittura che dilatano il nostro orizzonte e istituiscono collegamenti per certi aspetti inediti, visioni personali e intime sui processi che generano la scrittura. «Scrivere è, come la Storia, una guerra illustre contro il Tempo. Che passa veloce, troppo veloce per poterlo domare». E ancora, con William Trevor: «[…] abbiate la capacità di concentravi su ogni frase, su ogni pagina, senza perdere di vista l’insieme».
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Del resto lo si predica a ogni piè sospinto e in qualsiasi laboratorio di scrittura: per scrivere bisogna saper leggere. E Tuzzi cita il celebre saggio sulle spie di Carlo Ginzburg, dove il cacciatore sarebbe stato il primo a “raccontare una storia” perché il solo in grado di leggere, nelle tracce mute e impercettibili lasciate dalla preda, una serie coerente di eventi. Lo scrittore è, prima ancora, lettore. Da qui a lanciare il sasso sulle “letture formative” (che non coincidono con quelle più amate) il passo è breve; eppure il nostro si sottrae volutamente al compito (mai affidatogli, del resto) di stilare liste di titoli e di scrittori, per quanto in questo libro i suoi modelli di riferimento emergano in più di un’occasione e molti facciano Proust di cognome, per dirne uno. Il fendente, la lama che affonda senza pietà, è comunque questa:
«Lo dico a titolo squisitamente personale, ma ritengo che le letture formative si concentrino fra i tredici e i vent’anni di età: prima, certo, ciò che leggiamo ci forma, ma in misura inconscia. In quei sette anni – sette, numero magico – si prende coscienza, invece, di nuovi alfabeti del pensiero».
In questo arco d’età, spiega Tuzzi, si è pronti ad assimilare e digerire i succhi nutrienti di quella polpa, prima e al di là di ogni analisi critica. Lo so, è dura da mandar giù, ma se non avete letto Guerra e pace a tredici anni, come il nostro, il resto della strada è tutta in salita. Per Tuzzi (che si restringe in una formula) l’esperienza di questa lettura «è stato l’apriti Sesamo per il primo stadio di quel “tutto connettere” che E. M. Forster pone a pilastro della saggezza narrativa».
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Perciò connettere, analizzare e comparare sono i nuovi comandamenti del credo. Per risalire agli archetipi. Accade, dice Tuzzi, anche quando si legge per la prima volta uno dei casi di Freud, secondo lui romanziere assai più nobile di Conan Doyle. Non dite che a questo punto non vi stanno luccicando gli occhi! Non è finita: dopo la domanda, ovvia, sul perché si legge, la domanda successiva è: perché si scrive? Quante volte ve la siete posta?
«[…] perché la scrittura rende presente l’assenza, rende possibile comunicare tra i morti e i vivi, rivolgendosi a quanti non sono ancora nati: la scrittura è tramite fra visibile e invisibile».
Una delle suggestioni più intriganti che Hans Tuzzi mette a fuoco in Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore con una perspicuità e chiarezza che raramente ho notato in altri commentatori, è l’affermazione: «Vi è davvero dicotomia tra struttura e stile?» Non è che si faccia presto a confondere la struttura con la trama e lo stile col ritmo? C’è un capitolo delizioso che va centellinato periodo per periodo su questo tema.
«Noi sappiamo che un bel libro ha un suo stile, senza capire esattamente in cosa consista. Ed è proprio lì che sta la letteratura. Lo stile può sedurre o può respingere, ma l’assenza di stile, sostiene Andrè Breton, si riconosce dalla prima pagina».
Impossibile, perciò, non ricondurre questa nozione sullo stile pensando all’incipit. Se qualcosa non funziona nella prima pagina, se fallisce l’intento di agganciare il lettore dalle prime righe come potrebbe migliorare la situazione, in seguito?E qui la citazione d’obbligo sono i formidabili incipit di Franz Kafka, che Tuzzi riprende a suo modo e che costituiscono sempre una palestra ottimale per chi si prefigge di “cominciare bene”.
Al di là di questioni frequentate a più riprese in campo narratologico, che ben rispecchiano l’ordinamento dei capitoli, quel che sorprende in Tuzzi è la mole sterminata delle letture compiute e la sua più volte insistita capacità di connettere “il tutto con il tutto” (lezione di cui fece tesoro e discettò anche il grande semiologo e scrittore Umberto Eco). Pure nel parlare della sottile arte di levare (less is more) indulge per qualche pagina nel rivelare al lettore come Georges Simenon, a lungo considerato un minore o un autore di genere, sia in realtà da annoverare tra i maestri del dire non dicendo, per la sua sovrana e sapiente reticenza. Un piccolo test: qualcuno si ricorda il nome della moglie dell’ispettore Maigret? Utile, molto utile, precisare come all’interno della storia da raccontare, ogni autore degno di questo nome ha scelto e ha ben chiaro cosa vuole dire, cosa accennare e cosa far indovinare al lettore. In letteratura i fatti non si danno, si mediano. E nella mediazione sta l’arte della scrittura.
Sono queste le piccole epifanie, i piccoli spotlight che si accendono a intermittenza nella fucina dello scrittore. Frammenti, rapide diagnosi del contemporaneo, il rapporto con la realtà per esempio:
«scrivere è un atto di pensiero che everte la realtà, perché la interpreta e la riorganizza, perché le dà una struttura in sé conclusa – il che, fra parentesi, spiega perché un film possa essere arte e una serie televisiva no, mai».
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Perciò se scrivere è cercare l’essenza oltre l’apparenza, afferma Tuzzi, è facile comprendere il titolo-affermazione di un libro di Walter Siti: Il realismo è l’impossibile.
Una lettura, Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore, di Hans Tuzzi, da percorrere privi di bussola. Avrete sicuramente qualche problema ad orientarvi, di tanto in tanto, nel ginepraio delle citazioni, ma le gemme inaspettate che coglierete tra le pagine, anche là dove, rileggendo un periodo un po’ opaco, vi era parso di cogliere solo ombre e oscurità, vi ripagheranno ampiamente dello sforzo profuso. Giusto per chiosare con l’amato (di Tuzzi) Proust: «il libro per noi è la porta aperta su tutte le strade che si protendono fino alla fine del mondo».
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