Seimila personaggi in cerca d’autore
Abbiamo riflettuto insieme, nei mesi scorsi, sullo scrivere e sull’essere scrittori, interrogandoci su cosa significa vivere di scrittura e su quali possono essere le vicissitudini che un autore può doversi trovare ad affrontare lungo la sua strada. Tutte quelle domande, quei dubbi, quelle incertezze non hanno trovato una risposta univoca e chiara e non era neppure quello il mio obiettivo, io ho soltanto espresso la mia opinione da quattro soldi e in qualche caso voi avete anche esposto la vostra.
Il nuovo articolo che affido alle pagine di questo onorevole blog, invece, vorrebbe rappresentare un piccolo tassello del mosaico più vasto riguardante i discorsi sullo scrivere. Panorama che osservo con curiosità da un po’ di tempo e dentro il quale mi muovo in punta di piedi, facendo meno rumore possibile, per evitare di disturbare chi, come alcuni tra i miei rispettabili colleghi, frequenta questi lidi da più tempo e con di certo maggiore disinvoltura.
Parliamo allora di personaggi. Ogni libro, ogni storia sono popolati, nel bene e nel male, da queste strane creature per un terzo carta, per un terzo parole e per la restante parte individui. I personaggi, nascono, crescono, agiscono e muoiono entro i confini della narrazione; amano, si adirano, urlano, sospirano, piangono, ridono, tutto per soddisfare il capriccio dell’autore di turno, per intrattenere il lettore e regalargli qualche ora (o minuto) di piacevole evasione.
I romanzi pullulano di personaggi, protagonisti, aiutanti, antagonisti, beneauguranti, ognuno con la sua storia, con la sua identità, la sua anima. Oppure no.
È su tale aspetto che vorrei soffermarmi in questa riflessione. Taluni sostengono che esistano due tipi di scrittori: i tessitori di trame e i costruttori di personaggi. I primi sarebbero più attenti all’intreccio, all’ambientazione, alle interazioni, darebbero più spazio all’azione relegando il resto a brevi accenni, parole gettate lì, senza neanche tanta cura; insomma, veri demiurghi che plasmano alacremente la morbida argilla del mondo, senza curarsi poi tanto di chi lo popola, quasi fosse un accessorio di cui potere fare tranquillamente a meno. I secondi, di contro, sono coloro che, come dei novelli Freud o dei Lacan redivivi, si seggono di fianco al personaggio di turno e ne analizzano ogni sfaccettatura del carattere, esplorando i meandri più ingarbugliati della sua mente, cercando di arrivare al nocciolo gettando una luce sulla spiegazione dell’azione. Questo seconda tipologia di autori colloca al primo posto il personaggio e relega a un piano facoltativo tutto il resto, spogliano la storia, riducono il superfluo all’osso e si concentrano su ciò che gli sta più a cuore: i personaggi.
Dove sta la verità?
Banalmente, la verità, così come la virtù, sta nel mezzo.
I personaggi, ho accennato poco sopra, sono creature ibride, la loro forma sta nella carta in cui la storia è vergata (che visione romantica della scrittura!), mentre la loro sostanza sta nelle parole, in quelle che li descrivono e in quelle che loro stessi pronunciano, il tutto calato all’interno dei ben definiti confini tra realtà e fiction. Scrivere è un lavoro di artigianato abbastanza complesso (chi legge abitualmente “Sul Romanzo” se ne sarà reso conto da tempo) e che richiede una buona capacità di armonizzazione e tanta pazienza. Per capire meglio questo aspetto, vi invito a leggere le Postille a Il nome della Rosa di Umberto Eco, nel quale l’autore illustra, con straordinaria lucidità, tutti i passi che lo hanno condotto alla stesura del suo indiscusso capolavoro. Nelle Postille si sottolinea la necessità di immaginare il contesto in cui la narrazione è immersa, al di là di quello che poi materialmente andremo a inserire nella nostra storia. Per spiegare meglio questo concetto, forse, è utile riportare le parole dello stesso Eco:
«Il primo anno di lavoro del mio romanzo è stato dedicato alla costruzione del mondo. Lunghi regesti di tutti i libri che si potevano trovare in una biblioteca medievale. Elenchi di nomi e schede anagrafiche per molti personaggi, tanti dei quali poi sono stati esclusi dalla storia. Vale a dire che dovevo sapere anche chi erano gli altri monaci che nel libro non appaiono; e non era necessario che il lettore li conoscesse, ma dovevo conoscerli io. Chi ha detto che la narrativa deve fare concorrenza allo Stato Civile? Ma forse deve fare concorrenza anche all’assessorato all’urbanistica. E così lunghe indagini architettoniche, su foto e su piani nell’enciclopedia dell’architettura, per stabilire la pianta dell’abbazia, le distanze, persino il numero degli scalini in una scala a chiocciola. Marco Ferreri una volta mi ha detto che i miei dialoghi sono cinematografici perché durano il tempo giusto. Per forza, quando due dei miei personaggi parlavano andando dal refettorio al chiostro, io scrivevo con la pianta sott’occhio, e quando erano arrivati smettevano di parlare».
Ecco, io credo che questo aspetto sia molto importante. Umberto Eco parla di «romanzo come fatto cosmologico» e io sono ampiamente d’accordo con questa visione della faccenda. Un racconto, un romanzo, una storia non possono essere costituiti solo dall’ambientazione “scenografica”, devono possedere un contesto ampio e variegato, in grado di fornire un buon grado di verosimiglianza al lettore; non posso prediligere la trama ai personaggi o l’ambientazione alla trama, perché sono aspetti inestricabilmente interconnessi. Quando decidiamo di scrivere una storia, dobbiamo innanzitutto pensare a costruire il mondo dentro cui tale storia si dipana e a plasmare i personaggi che dentro tale mondo agiscono, mantenendo sempre ben presente che ogni individuo è immerso in una rete di relazioni che ne determina, e per certi versi ne condiziona, la formazione dell’identità ed è proprio l’identità che uno scrittore deve cogliere per riuscire a tratteggiare personaggi che mi piace definire rotondi.
Ovviamente il mio non è altro che uno spunto che mi piacerebbe discutere con voi lettori di “Sul Romanzo” per arricchirci attraverso il confronto.
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