Sedotti dall’impossibile. “Dove la storia finisce” di Alessandro Piperno
È uscito in libreria agli inizi di ottobre il nuovo romanzo di Alessandro Piperno, Dove la storia finisce, edito da Mondadori. È passata una manciata d’anni dai racconti-mémoires di Pubblici infortuni (2013), dalla saga dei Pontecorvo, in Persecuzione (2010) e Inseparabili (Premio Strega, 2012). Ne sono trascorsi undici dall’esordio col botto, Con le peggiori intenzioni (2005) e lo scrittore romano, ebreo per parte di padre, racconta ulteriori sfaccettature della borghesia ebraica altolocata: le convenzioni sociali, le occasioni mancate, l’incomunicabilità, lo smarrimento esistenziale, le invidie e le ambizioni frustrate. Sembrerebbe una vicenda privata, e in effetti lo è per gran parte del racconto, ma poi interviene un evento imprevisto a spezzare il tutto e il lettore perde di vista il particolare per trovarsi, quasi catapultato, a contemplare squarci di un possibile affresco epocale.
Ma andiamo per gradi. Piperno mette in campo diversi personaggi, e li fa incedere con lentezza, svelandoli per gradi o non svelandoli affatto. Si osserva, in effetti, una certa reticenza, una certa insipienza, pure in quei personaggi che assumono maggior rilievo nell’economia del romanzo, a uscirsene dalla loro condizione di “tipi”, a bucare la pagina e debordare da quel che viene comunemente percepito come un “certo” stereotipo. Non che lo stereotipo non sia un gettito della realtà: talvolta è la riflessione più pura e cogente di un onesto, franco e peculiare punto di vista di alcuni aspetti del mondo che ci circonda. Prendiamo Matteo Zevi, per esempio: spirito libero e bohémien che all’inizio del romanzo rientra in patria dagli Stati Uniti, turbando il già precario equilibrio psicologico dei suoi famigliari. Si era dato alla latitanza in California molti anni prima per i debiti accumulati, abbandonando all’improvviso i membri della sua famiglia. Matteo ha un innegabile successo con le donne, e non solo. Il suo carisma ammalia chiunque gli stia intorno, pure i maschi più refrattari e non si capisce da dove promani quest’aura e un innegabile talento nel sentirsi a suo agio in ogni ambiente e manipolare gli individui di ogni ceto sociale coi quali entra in contatto. La bellezza fisica? Un ideale romantico di spudoratezza, di fanciullesca cialtroneria e sprezzo per ogni legame duraturo? Si tratta forse di caratteristiche innate, che si danno o non si danno in natura, non ci è dato saperlo. Eppure sortisce effetti: Giorgio, avuto dalla prima moglie; Martina, il dono della seconda moglie.
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La seconda moglie, Federica Zevi, è una Penelope, una che aspetta e non si arrende all’infelicità. Federica è come le eroine dei romanzi classici che legge con passione, col nome della protagonista nel titolo: Emma, Clarissa, Thérèse, Pamela, Moll. Donna ancor piacente, a 49 anni si sente come «una Jaguar di terza mano» per una popolazione di vedovi, divorziati e single di lungo corso, sempre in competizione con trentenni scafate più vitali ed energiche di lei. Federica è in cerca di riscatto ora che Matteo rientra a Roma: sogna una ritrovata pacificazione e concordia famigliare, accanto a lui, e cerca di convincere la figlia Martina e il figliastro a riavvicinarlo. Federica è un personaggio squisitamente letterario, anche nel suo essere lettrice: la sua malinconia e i suoi sforzi commuovono il lettore per la sua estrema consapevolezza, pure nell’ammissione di una sconfitta quando non riesce a concentrarsi su uno dei suoi libri preferiti, I Buddenbrook di Thomas Mann, e quando Matteo si rivelerà, per l’ennesima volta, inaffidabile. E pure qui siamo nei dintorni di quei “tipi” o “characters” di cui ho parlato più sopra.
Giorgio, il figlio di Matteo e della sua prima moglie, sembra essere il personaggio più contrastato e intrigante, quello al quale il lettore può conferire senza indugi uno sviluppo coerente, assemblando i vari elementi coi quali è stato forgiato. Lo osserviamo in un momento cruciale della sua esistenza, quando riceve a scuola (viene chiamato al telefono, in presidenza) la chiamata del padre che lo informa che deve scappare subito all’estero e che non si rivedranno. Gli chiede di prendersi cura di sua madre Federica e della sorellastra Martina. «Giorgio non aveva mai scordato quel senso di fine. Il lungo corridoio vuoto, l’eco dei passi, la slavina dei pensieri che lo sommergevano». Strappato prima del tempo alla sua adolescenza, viene cacciato a forza nell’età adulta. E si rimbocca le maniche, lascia il liceo e si trova un lavoro. Giorgio è lavoro e risentimento. Fino a che non diviene un uomo d’affari di successo, e tocca l’apice della soddisfazione professionale aprendo un grande ristorante di tendenza “Asian Fusion”. A cambiargli le prospettive ci penserà Sara (un bel personaggio minore, un’ebrea con la ferita mai rimarginata di un padre suicida), la compagna che lo porrà, suo malgrado, di fronte all’inoppugnabile verità: anche a lui spetterà confrontarsi con le responsabilità di divenire padre.
Martina è la figlia che a nove anni resse meglio il trauma del distacco dal padre; pugnace quanto fragile e immatura nella gestione dei suoi legami sentimentali, Martina paga lo scotto di una precoce integrazione borghese. Ha sposato il figlio del suo Professor Mogherini, Lorenzo, uomo vanesio e brillante ma forse un tantino superficiale e poco incline a mettersi in sintonia con i suoi desideri e aspirazioni. E ora il matrimonio rischia di naufragare, destabilizzato dal ritorno di Matteo Zevi e dal rientro in Italia di Benedetta, la sorella di Lorenzo, amica del cuore di Martina dai tempi della scuola, capace di scatenare nella mogliettina allineata una vera e propria tempesta emotiva che creerà scompiglio e rischierà di far crollare gli equilibri già posticci della famiglia. E anche qui non riusciamo a sottrarci da un senso di deja vu, incasellando il “tipo” di Martina nella casistica già ben nutrita delle figliole di famiglia-bene, etichettate in modo calzante, nel corso di un “arguto cazzeggio”, dall’amica Benedetta: «Sei ricca, annoiata, ami il cinema turco, i manga, i libri di Foster Wallace. Sei l’emblema della classe dirigente di un Paese corrotto e decadente. Non riesco a pensare ai tuoi segreti senza arrossire. Noi di sinistra siamo molto puritane».
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Il giro di boa del romanzo avviene nel momento in cui Giorgio celebra i primi cinque anni della sua attività di ristoratore e alla faraonica serata mondana, dove intervengono personaggi famosi del mondo dello sport e dello spettacolo, i suoi congiunti hanno modo di confrontarsi tra loro e con il fedifrago fuggiasco Matteo Zevi, che li impiglia nella sua rete di persuasore occulto anche in questo caso. Giorgio non vuole avere più niente a che fare con suo padre; i Mogherini cercano di capire da Federica i moventi degli inspiegabili comportamenti della figlia Martina. Lorenzo, riguardo alla moglie, sembra non voler vedere quel ch’è lampante.
L’ambiente ebraico romano è ben connotato da Piperno, che dirige la narrazione con mano sicura e una scrittura fluida ed elegante, attenta ai dettagli: gli arredi, gli abbigliamenti, le tendenze e preferenze di una società esplorata dall’interno. Ne svela i manierismi, i tic, le nevrosi, i rituali (pure quelli religiosi) ormai stantii, sullo sfondo di una Roma sempre bella, pure se rugosa e un po’ decrepita. I registri sono ora quello della commedia e della parodia. Potrebbe essere il Woody Allen di Crimini e misfatti o di Match Point, ma manca della verve scoppiettante e di alcune precise filosofie esistenziali di fondo. I personaggi, come ho detto, sembrano sottrarsi, anche nel pensare, in certi casi, per luoghi comuni, come le sconclusionate e puerili teorie di Matteo Zevi, o qualche troppo facile sparata sulle idiosincrasie e differenze tra i sessi. Sono tutti così presi da sé stessi e dalle loro lamentazioni, sedotti dall’idea di vivere vite che non gli appartengono e che non gli apparterranno mai che non si accorgono che il vento sta per cambiare, che l’invidia o forse qualcosa di più grande e ancestrale, la Storia o come vogliamo definire questa entità, sta per cambiare radicalmente tutto e farli precipitare nella tragedia.
«Era come se la piccola storia di ciascuno finisse proprio dove la Storia riprendeva a correre». E la Storia ha il volto di un dramma che non posso svelare a chi intende leggere questo singolare romanzo. La cesura netta sta tra il prima e il dopo, Dove la Storia finisce, dove la rosa dei personaggi si congeda in fretta e furia, quasi per paura di polverizzarsi. La Storia è tutto quel che il terzo millennio e la sua brutalità ci stanno abituando a considerare, ahinoi, spesso con indifferenza, per il sovradosaggio e la massima esposizione mediatica, che ne svuotano i contenuti più autentici. Stenteremo a riconoscere questi personaggi, Dove la storia finisce. Li accorderemo con difficoltà a quel che erano. Forse il solo anelito di speranza risiede in Noah, il figlio di Giorgio, nel riavvicinamento di suo padre al messaggio religioso e a una scelta di vita conseguente quanto importante. La “frattura epocale”, spiega Piperno, è tra ere inconciliabili: il prima e il dopo. Prima c’era l’anelito all’impossibile, la seduzione di una vita diversa, pure nella banalità di un malessere omologato, se considerato in prospettiva. Dopo, Dove la storia finisce, c’è solo una lunga cicatrice e la fine di ogni illusione residua.
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